Do You Like Our Owl?

Do You Like Our Owl?

Di Redazione SW

di Lorenzo “LRNZ” Ceccotti

Il 5 ottobre 2018 segna un anno esatto dall’uscita nei cinema di Blade Runner 2049. Questo il motivo di facciata per questa inusuale collaborazione fra un fumettista, illustratore e designer e un magazine di cinema come ScreenWEEK. Con questo articolo, però, non voglio approfondire il seguito di Denis Villeneuve, né concentrarmi (come sarebbe logico aspettarsi visto il mio ruolo) sull’aspetto della sublime concept art del primo film. Voglio piuttosto affrontare l’incredibile profondità simbolica del film originale di Ridley Scott che, ancora oggi, ha infiniti segreti da rivelare. In particolare, Davide Dellacasa era al corrente di una mia recente scoperta in merito, una rivelazione lampante che a mio avviso aggiunge una tale sostanza al film da renderla imprescindibile. Stavo morendo dalla voglia di renderla pubblica e la proposta di Davide di ospitarla su ScreenWEEK è arrivata con un tempismo perfetto.

Una Premessa.
L’etichetta dei giorni nostri impone che io vi segnali che questo articolo è un enorme spoiler. Dall’inizio alla fine. Solo che mi chiedo: ogni testo critico cinematografico o letterario è per definizione un enorme spoiler, o sbaglio?
Ghezzi fa gli spoiler alert?
Va anche detto, però, che se non avete ancora visto Blade Runner gli spoiler sono l’ultimo dei vostri problemi, quindi correte a vederlo e poi tornate qui da me.

Non scrivo mai di cinema perché nella vita le arti figurative le pratico, cinema incluso. Cerco quindi di dedicare loro tutto il tempo che ho e non è mai abbastanza. Come se non bastasse non ho studiato storia del cinema, né all’università né per conto mio. Sono solo uno spettatore che incidentalmente ha buone competenze operative nel campo, ma non posso definirmi certo un conoscitore accademico/enciclopedico del cinema o uno specialista. Sebbene abbia una passione sfrenata per creare immagini e spenda sostanzialmente tutta la mia vita pensando, studiando e guardando immagini, finisco sempre per non avere tempo e modo di parlarne, insomma.

Non fraintendetemi: traggo sempre le mie conclusioni su quello che vedo, spesso me le appunto per pensarci su. Finché non riesco a dare un perché alle mie reazioni, positive o negative che siano, generalmente non trovo pace, ma resta una questione privata, personale.
È però da veramente troppo tempo che vorrei scrivere due righe su Blade Runner, su una scena particolare di quello che è sicuramente uno dei più maestosi film mai creati, nonché uno dei più discussi, ripubblicati, rieditati che l’umanità ricordi. A questo credo valga la pena di aggiungere che per me Blade Runner è uno di quei rarissimi film che trascende la forma fisica in cui è stato costretto ed è in cima alla lista dei miei film preferiti di sempre.

Lo metto fra gli inarrivabili.

Questo articolo si muoverà su due canali diversi, quello analitico, attaccato ai fatti, e quello speculativo in cui traggo le mie conclusioni, una proposta di lettura, arbitraria. Non sorprendentemente, la parte più eclatante e emozionante di questo mio punto di vista sul film arriva proprio dai fatti nudi e crudi della storia raccontata da Scott. Le mie considerazioni saranno poco più che corollarie.

Blade Runner ha attraversato una serie di vicende piuttosto singolari che hanno costretto la pellicola a subire tagli, rattoppamenti e sabotaggi narrativi tali da stravolgerne il senso ultimo. Infatti nella versione inizialmente uscita nei cinema la storia ci raccontava di uno speciale investigatore privato, un uomo di nome Rick Deckard (Harrison Ford). Rick è specializzato nella terminazione di cyborg replicanti Nexus6, modelli avanzatissimi di macchine antropomorfe. I Nexus6 sono letteralmente indistinguibili da un essere umano, ad occhio nudo, ma sono incredibilmente più forti e resistenti delle loro controparti organiche. Gli viene quindi affidato il compito di ritirare un gruppo di questi androidi ritenuti pericolosi: sono fuggiti da una colonia extramondo uccidendo 23 persone durante l’evasione. Erano 6, ma due sono già morti cercando di penetrare all’interno dell’azienda che li ha prodotti, la Tyrell: Roy, Priss, Leon e Zhora sono i sopravvissuti che Deckard dovrà ritirare. Dopo peripezie innumerevoli, pur eliminando tutti i Nexus6, Deckard trova degli aspetti di grande umanitá nei replicanti e rimane profondamente turbato dal monologo di Roy Batty su quanto effimera possa essere la vita. Come se non bastasse si innamora di una replicante conosciuta presso la Tyrell, il suo nome è Rachael (Sean Young).

Decide quindi di fuggire assieme a lei verso un futuro lontano dalla città – seppure molto vicino all’Overlook Hotel, ma quella è un’altra storia.

La versione uscita nelle sale nel 1982 suggerisce insomma un futuro in cui l’amore fra un uomo e una macchina è possibile, un futuro felice in cui Rachael non morirà mai, essendo la prima e l’ultima di una generazione di replicanti immortali, un prototipo unico nel suo genere: un Nexus6 sarebbe altrimenti destinato a una vita di soli 6 anni. Un finale lieto come pochi, imposto dalla produzione per rendere il film digeribile dal grande pubblico e non duro come quello originale riportato alla luce con l’edit “Director’s Cut”.

Noi ci cureremo di quest’ultima versione e del “Final Cut”, visto che entrambi fanno capo alla visione originale, non adulterata della storia, secondo la quale, attraverso una serie di immagini solo apparentemente oscure e decorative, veniamo messi in condizione di trarre la più scioccante delle conclusioni: Deckard è egli stesso un replicante.

Dal “Director’s Cut” in poi, infatti, torna nel montaggio originale una strana sequenza onirica in cui Deckard sogna un unicorno.

Alla prima visione non può che apparirci completamente priva di senso.
Dal film apprendiamo che i sogni dei replicanti sono innesti mnemonici, file che vengono prodotti alla Tyrell Corp. e copiati nella rom limbica dei Nexus. I Nexus, infatti, non crescono e vengono immessi nel mondo direttamente con le fattezze di individui adulti. Per dare loro la sensazione di aver vissuto gli anni prima della loro effettiva accensione e completare la magia di farli sentire umani, oltre che sembrarlo, i Nexus nascono con una menzogna al posto della memoria.

Questa menzogna è opera degli scienziati Tyrell: un set di file, sogni e ricordi “stock”, informazioni che operano ad un livello tanto intimo da essere lo schermo impenetrabile per una verità altrimenti inaccettabile. Di conseguenza una differenza enorme fra un replicante e un uomo è che i sogni di un replicante sono noti, indicizzati. Sono solo una serie di file in una cartella del loro sistema operativo. Gaff, un altro Blade Runner, verso il finale del film lascia un origami di un unicorno sul pianerottolo di Deckard come a dirgli: so quello che sogni. Lo so perché sei un replicante, anche tu.

Proprio come Rachael: come se non bastasse, nella stessa scena Gaff grida che lei non vivrà affatto più degli altri Nexus. Alla coppia di replicanti non resterà quindi poi molto altro da vivere assieme, braccati da un nuovo Blade Runner con l’obiettivo di “ritirarli”.

(Un po’ diverso dall’altro finale, insomma.)

Ma veniamo al motivo di questo articolo. Questa rivelazione sulla natura dei sogni dei replicanti, discussa per anni, ma messa al sicuro da Scott stesso, ha monopolizzato l’attenzione di tutto il mondo critico sul film, schermando il vero colpo di scena nascosto nell’intera vicenda. È un falso traguardo. Come ogni opera ermetica che si rispetti, Blade Runner ha tenuto al sicuro il suo vero segreto per altri 20 anni.

E io adesso ve lo svelo.

Andiamo in ordine.

Il film si apre con l’immagine di un occhio. La storia del cinema e della televisione è piena di occhi inquadrati da vicino, e hanno avuto molteplici significati, spesso criptici. In Blade Runner ne hanno uno, piuttosto esplicito. Sono, in definitiva, il simbolo sia della consapevolezza che della sua mancanza, di una condizione filosoficamente “troppo umana”, quindi.

More Human Than Human” recita il motto di Eldon Tyrell, la mente dietro la Tyrell Corp: lo scandisce a chiare lettere durante la scena cardine di questo mio ragionamento, la scena in cui Deckard sottopone Rachael al test Voight Kampff.

Tornando all’inizio del film, al nostro occhio in cui si riflette un mondo estremo: è un altro test Voight Kampff ad aprire il film. Ed è un altro replicante ad esservi sottoposto: Leon. La scena ci illustra chiaramente il funzionamento del test: la “Voight Kampff machine”, una meravigliosa quanto inquietante macchina portatile che mentre respira nella sua custodia 24ore osserva con un occhio rosso luminescente l’iride di Leon, alla ricerca di movimenti involontari che ne conclamino la non umanità.

Il test serve infatti a capire se l’essere analizzato è o non è un replicante e si rende necessario proprio per la perfezione delle nuove generazioni di replicanti. Si svolge con una serie di domande ipotetiche o paradossali che cercano di scardinare la maglia di informazioni preimpostate che formano il sistema morale, logico e sentimentale di un replicante, mentre su un display crt l’operatore può analizzare un close up dell’occhio del paziente. In sostanza è uno strumento che aiuta a compiere un sofisticato test di Turing basandosi su una sintomatologia precisa, confortata da un’analisi per immagini.

L’occhio di Leon lo vediamo da vicino come l’occhio che apre il film, appunto.
Trovo già formidabile che questo occhio gigante che ci guarda sia inquadrato dallo stesso punto di vista di una macchina, la Voight Kampff, su un’altra macchina, un replicante. E che già al secondo shot del film trasformi l’intera sala in una gigantesca macchina Voight Kampff, ma ve l’ho detto che questo film per me è speciale e non voglio perdermi in dettagli.

Tornando alla storia, Leon è sicuramente il più stupido dei replicanti evasi. Considerate che Il loro capo, Roy Batty (Rutger Hauer), è una spanna sopra agli altri per intelligenza e sensibilità, e ragiona comunque come un intelligentissimo bambino di sei anni. Bastano due domande perché sia chiaro all’esaminatore che Leon non è affatto umano e il test si chiude con il replicante che messo alle strette spara al suo esaminatore.

Il prossimo occhio che vedremo da vicino è quello di un gufo, il cui sguardo è il trademark della Tyrell Corp, seduto sul suo trespolo, proprio nella sede della Tyrell Corp.

Deckard si reca lì per indagare sul caso dei replicanti fuggiaschi e viene accolto da Rachael, una donna sorprendentemente bella.

Deckard chiede a Rachael se il gufo sia o meno artificiale. Rachael risponde che è ovvio che lo sia. Ed è un’affermazione spiazzante, perchè nella sequenza il gufo si comporta come ci si aspetterebbe da un gufo vero. Si guarda attorno maestoso e poi spicca il volo tagliando per intero l’enorme sala riunioni.
Entra in scena un terzo personaggio, è Eldon Tyrell in persona, l’inventore della tecnologia Nexus, il padre di tutte le creature sintetiche marchiate Tyrell corp. Anche lui ha degli occhi speciali, enormi, deformati da lenti speciali che amplificano la sua vista. Tyrell è un uomo che usa la tecnologia per amplificare la sua consapevolezza.

Tyrell chiede a Deckard di effettuare il Voight Kampff su Rachael “per avere un test negativo prima di fornire un soggetto positivo”.
Deckard effettua il Voight Kampff a Rachael, sotto gli occhi spalancati e compiaciuti di Tyrell che assiste alla scena.
Alla fine del test, Deckard sembra non essere sicuro al cento per cento, ma ha buone ragioni di credere che Rachael sia un replicante. Chiede conferma rivolgendosi a Eldon che è positivamente impressionato e conferma dicendogli anche di esser convinto che Rachael sia talmente sofisticata da iniziare a sospettarlo.
Questi sono i fatti raccontati nel film. E qui posso farmi carico di svelarvi un primo segreto custodito nel cuore di Blade Runner.
Un cortocircuito di plot di cui nessuno, a mia memoria, ha mai fatto menzione.

È chiaro che la forza emotiva di questa scena è tutta nell’incrocio di sguardi fra Deckard, Rachael e quello clinico e inquisitorio dell Voight Kampff. Di un amore che nasce fra un uomo e una macchina durante un interrogatorio rappresentato con la massima maestria cinematografica possibile (potrei parlare per ore di tutte le scelte formali che rendono questa scena un capolavoro dell’arte, ma ve lo risparmierò). Ma per capire il vero significato di questa scena dobbiamo fare l’esercizio creativo di sganciarci un attimo dal mondo visto attraverso gli occhi di Deckard per muoverci dal punto di vista di un altro personaggio, Eldon Tyrell.
Come abbiamo detto poco sopra: alla fine del film apprendiamo che Deckard è un replicante.

Se è vero che Deckard è un replicante, è anche vero che è figlio di Tyrell, anche lui.
Tanto quanto Rachael, Roy, Leon o Zhora.
Tyrell quindi sa che quello che sta per andare in scena sotto i suoi occhi, durante il test Voight Kampff fra Deckard e Rachael è una sfida di inconsapevolezza fra due macchine.
Una sfida di vera, incosciente umanità, in cui ognuno degli attori è convinto di essere nel giusto, di essere un umano e nessuno dei due lo è.
Tyrell sta facendo sfidare i suoi due computer migliori, le sue due creature più perfette in una partita a scacchi.

Una partita che a differenza di quelle che sostiene con JF Sebastian non ha neanche un giocatore umano (e di questo torneremo a parlarne).

Possiamo dire quindi che per la prima volta nella storia dell’umanità, Tyrell sta facendo fare il test di Turing da una macchina all’altra, con successo.
E quando me ne sono accorto mi sono commosso, perché come tutte le grandi verità segrete è stata sotto i miei occhi per tutta la mia vita e non me ne ero mai accorto.
Per questo esatto motivo e per quello che mi compete, tutto il resto del film è un corollario a questa scena che è un vero e proprio monumento esoterico.

Qui si ferma la mia analisi dei fatti nudi e crudi, del plot.

Entrando più nel dettaglio, proviamo a capire come il codice degli occhi ha a che fare con questa scena e perché la forma di questo film ha così tanto da dire su così tanti strati meravigliosamente intrecciati l’uno con ’altro.
La forma di sapienza più alta, esclusiva e antica che l’uomo ricordi è senza dubbio lo studio del cielo, l’astronomia. Lo studio del cielo e delle stelle ha consentito di individuare il nord, di comprendere e codificare il passare del tempo. Di constatare che principi geometrici regolavano la natura del mondo, di raggiungere la consapevolezza di come funziona. E se è vero che il sole è da sempre portatore di luce e quindi di chiarezza e sicurezza, è un punto fisso nella ricerca iniziatica e esoterica dire che il sole porta una luce che nasconde la verità, perché il cielo azzurro nasconde le stelle, visibili solo al buio, visibili solo alle creature notturne, lontani dalle luci artificiali.
La luce del sole rende ciechi.
Le stelle e i gufi hanno da sempre quindi a che fare con il concetto stesso di sapienza, solitudine e consapevolezza. Il gufo infatti si fa strada nell’ignoranza grazie alla sua capacità innata di vedere al buio ed è per questo l’animale di compagnia perfetto per un sapiente, solo fra tutti a rimanere alzato fino a notte fonda.
I maghi, come li consideriamo abitualmente nel fantasy, sono una strana via di mezzo fra supereroi e cialtroni giustificati dai voli pindarici e fantasiosi della letteratura di genere. Oppure, si tratta di persone in grado di ingannare, attraverso dei trucchi tutt’altro che trascendenti – fisici o ottici, piuttosto – lo spettatore.

Se avete letto un po’ di filosofia, al liceo o per conto vostro, saprete che dal 1700 in poi grazie a Kant prima e a Schopenhauer poi si fa strada nella filosofia occidentale il concetto di rappresentazione. Schopenhauer in particolare lo associa al concetto Indu e Buddhista “Maya”, ovvero del velo che ci separa dalla verità, un velo fatto di illusione. Tutto è rappresentazione, tutto è Maya, l’uomo non ha scampo: l’umanità porta con se questa condizione di illusione inevitabile. Siamo costretti a percepire il mondo con i nostri sensi limitati, e tutto sembra dirci che quello che percepiamo è frutto di un processo illusorio e creativo “top-down” in cui è la nostra mente a creare la percezione del fenomeno, in barba alla verità noumenica.
D’altro canto un illusionista è appunto un mago che produce nella sua vittima la convinzione di vivere esperienze che sono in realtà frutto del suo incantesimo. È un essere umano in grado di controllare la Maya. L’etimo ci viene in soccorso: Maya (Indu) / Mageia (Persiano) / Magia. Atena si accompagna con una civetta, lo stesso fa la sua controparte romana, Minerva. Merlino ne La Spada nella Roccia ha un collega gufo (lo splendido Anacleto – in lingua originale “Archimedes”, tanto per ribadire), un vestito e un cappello blu. Nell’iconografia popolare il cappello di Merlino è spesso decorato con le stelle. È un sapiente, consapevole in massimo grado di cosa sia la vita e di cosa sia illusione. Merlino e Anacleto sono veggenti nel senso della clairvoyance, vedono la verità e possono manipolare la percezione della realtà.
Eldon Tyrell è un mago in piena regola, il più grande e solo dei maghi di tutta la storia del cinema. I suoi occhi vedono dove gli occhi degli uomini, ma soprattutto dei replicanti, non possono vedere. Perfino il suo gufo è inconsapevole di essere una macchina, ed è il simbolo perfetto per illustrare la condizione di Deckard, investigatore e predatore che vive di notte convinto di sapere la verità, eppure mai così lontano dal vero nonostante l’ausilio della tecnologia nella forma del Voight Kampff.

In una stanza dove Rachael sembrava la più inconsapevole i rapporti sembrano completamente ribaltati, con Deckard ignaro di specchiarsi nel Gufo.
Da qui in avanti non ci sono altro che conferme.
Roy Batty inizia la sua ricerca per raggiungere il dio che ha deciso di imporgli una vita così breve proprio da un laboratorio dove vengono prodotti gli occhi dei replicanti. Quale metafora più perfetta per rappresentare la condizione tremenda in cui è relegato un Nexus?

Il dialogo fra Roy Batty e Chew è a senso unico:

“Don’t know, I don’t know such stuff. I just do eyes, ju-, ju-, just eyes… just genetic design, just eyes. You Nexus, huh? I design your eyes.”
“Chew, if only you could see what I’ve seen with your eyes!”

Io faccio solo occhi” dice l’operaio terrorizzato dai due replicanti, come per dire questi sono solo strumenti di illusione. Non è con me che devi parlare: devi parlare con chi vede.

Roy Batty raggiungerà Tyrell che lo accoglierà finalmente vestito da mago in piena regola, con il suo gufo ricamato sul petto della sua tunica bianca. Andrà incontro alla morte, una morte bizzarra: Roy Batty lo ucciderà schiacciandogli proprio gli occhi.
Quegli occhi che hanno penetrato il buio dell’ignoranza e che gli hanno permesso di conoscere i segreti della vita. Quegli occhi che hanno visto dove non dovevano vedere e che hanno causato la vita intollerabile dei Nexus6.

Nella scena in cui Roy e Priss chiedono aiuto a JF Sebastian, Roy indossa gli occhi di un pupazzo di JF Sebastian. È la consapevole boutade, il coup de teatre di un filosofo bambino che ha finalmente capito e accettato il senso della sua breve esistenza e gioca per l’ultima volta.

E ora un piccolo extra.

Ad aggravare le cose esiste anche una sequenza mai girata, ma sceneggiata e magnificamente disegnata da Syd Mead in cui c’è un ulteriore plot twist che non fa altro che portare lo stesso concetto all’ennesima potenza.
La scena si svolge subito dopo l’uccisione di Tyrell da parte di Roy: Roy Batty schiaccia gli occhi di Tyrell e si accorge che anche lui è un replicante.
Procedendo la sua scalata alla cima della piramide Tyrell, arriverà infine nella capstone, nella punta dell’edificio dove troverà il corpo ibernato di Tyrell congelato con la speranza che nel frattempo qualcuno avrebbe trovato una soluzione alla morte. Roy si trova davanti all’ironia di scoprire che il dio così crudele da avergli imposto una vita così breve fuggiva dalla morte esattamente come lui. Roy distrugge il vero corpo di Tyrell.

 

 

Questo finale alternativo è ovviamente interessantissimo di per se, ma soprattutto perché pone le partite a scacchi di Eldon e JF su un piano simbolico completamente diverso, dove il solo genio autentico resta JF che, nonostante la sua mente brillante, viene costantemente umiliato da una macchina.

In conclusione JF giocherebbe a un complessissimo videogioco di scacchi dove non vince mai.
Tutto questo, però, non è mai successo.

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