Da Mississippi Burning a BlacKkKlansman, le radici dell’odio affondano nel Cinema

Da Mississippi Burning a BlacKkKlansman, le radici dell’odio affondano nel Cinema

Di Filippo Magnifico

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Il delicato tema del razzismo è più volte intervenuto nel mondo della settima arte, anche se non sempre nel modo giusto. E questo riguarda soprattutto l’inizio, quando il cinema stava assumendo una sua forma e i primi grandi registi stavano scolpendo sulla pietra alcune regole tramandate fino ai giorni nostri.

Ogni cinefilo che si rispetti, ad esempio, ha visto almeno una volta nella sua vita Nascita di una nazione, il film muto diretto da David Wark Griffith nei primi anni del ‘900. Un’opera fondamentale, entrata nella storia. La sua morale, però, è meglio lasciarla perdere. Si tratta di una glorificazione del Ku Klux Klan, dura da accettare all’epoca, figuriamoci oggi!
Lo sa bene Nate Parker, che nel 2016 con il suo The Birth of a Nation ha portato sul grande schermo la rivolta degli schiavi scoppiata in Virginia nel 1831 e per l’occasione, in maniera anche provocatoria, ha scelto di usare lo stesso titolo usato all’epoca da Griffith.

Viviamo in un altro periodo, fortunatamente, e certe cose non sono più accettabili. Al cinema spetta, quindi, il compito di denunciare il razzismo, l’odio immotivato, l’idea insensata di supremazia che vive dentro l’animo di alcune persone. Molti film lo hanno fatto e altri continueranno a farlo.
Spike Lee, ad esempio, ci ha proposto moltissime variazioni sul tema nel corso della sua carriera (si pensi ad esempio a Malcolm X e Fa’ la cosa giusta, solo due esempi all’interno di una vasta filmografia), ribadendo una volta per tutte il concetto con l’ultimo – e a quanto pare imperdibile – BlacKkKlansman, incentrato sulla storia (vera) del poliziotto nero Ron Stallworth che negli anni 70 è riuscito ad infiltrarsi in quel Ku Klux Klan che molti anni prima era stato glorificato da Griffith.
Nel farlo ha deciso di adottare uno stile “cool” che per certi versi ricorda quello del Quentin Tarantino più volte criticato da Spike Lee, lasciando però intanto il messaggio di fondo. Un messaggio che, inutile dirlo, risulta particolarmente attuale visti i tempi in cui viviamo: oggi più che mai abbiamo bisogno di titoli in grado di ricordarci i più grandi errori compiuti dalla stupidità umana.

Ovviamente BlacKkKlansman è solo l’ultimo esempio, la lista è lunga e comprende titoli come Mississippi Burning, diretto nel 1988 da Alan Parker e ambientato negli anni ’60, in un’America ostaggio di un Ku Klux Klan che si era eletto giuria, giudice e giustiziere di chi non seguiva la sua linea di pensiero.
Ma la storia del mondo non è costellata solo da eventi negativi ed è quello che ha provato a dirci Steven Spielberg nel 2012, quando con Lincoln ha portato sul grande schermo la nascita del Tredicesimo Emendamento della Costituzione Americana e l’abolizione della schiavitù per mano del 16º Presidente degli Stati Uniti d’America. Un argomento successivamente approfondito nel 2013 dal regista Steve McQueen e dal suo 12 anni schiavo, che ha portato sul grande schermo la storia dello schiavo Solomon Northup.

Ma la strada verso l’integrazione passa anche attraverso la consapevolezza. In che momento, quindi, il mondo della settima arte ha cominciato a riflettere al suo interno il tema razziale contemporaneo?
Più o meno negli anni ’50. Un titolo fra tutti? Uomo bianco tu vivrai di Joseph L. Mankiewicz, che ha lanciato il bravissimo Sidney Poitier raccontando la storia di un dottore afroamericano alle prese con un paziente razzista. Un ruolo che ha reso Poitier portavoce dei diritti degli afroamericani sul grande schermo, ribadito successivamente da titoli come Indovina chi viene a cena e La calda notte dell’ispettore Tibbs.
Una carriera, quella di Sidney Poitier, diventata un vero e proprio simbolo dato che stiamo parlando del primo attore di colore ad aver vinto un (più che meritato) premio Oscar.
Un piccolo passo per un uomo, un gigantesco balzo per l’umanità” si potrebbe dire prendendo in prestito le parole di Neil Armstrong, perché è proprio di piccoli grandi passi che si compone il percorso dell’integrazione.

Ci stiamo liberando di quelle radici dell’odio che sono state per troppo tempo radicate nel nostro di modo di pensare e di concepire il mondo ma non siamo ancora riusciti ad estirparle del tutto. La riflessione più lucida e convincente di come il razzismo sia ora in grado di nascondersi dietro la facciata del politically correct ce l’ha offerta Jordan Peele con il suo bellissimo Scappa – Get Out. C’è ancora molta strada da fare, non dobbiamo dimenticarlo, soprattutto ora. Quindi ben vengano pellicole come BlacKkKlansman, in grado di guardare al passato rispecchiandolo nel nostro presente. Come ha detto Spike Lee parlando della sua ultima fatica:

Questo film è un’analisi del mondo in cui viviamo. Questo film è un esame di dove c’è una battaglia culturale di Amore versus Odio come gli anelli che Radio Raheem portava sulle nocche in Fa’ la cosa giusta, che venivano dai tatuaggi che Robert Mitchum aveva sulle dita in La morte corre sul fiume. Amore versus Odio. Incroci le dita e speri e preghi che la gente lo capisca.

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