Suspiria, l’orrore della colpa nel film di Guadagnino: la recensione da #Venezia75

Suspiria, l’orrore della colpa nel film di Guadagnino: la recensione da #Venezia75

Di Lorenzo Pedrazzi

I migliori remake sono quelli che sfruttano il soggetto di partenza per costruire un film diverso, valorizzando le differenze culturali (prima ancora che anagrafiche) rispetto all’originale. Mettere Suspiria nelle mani di Luca Guadagnino significa compiere un’operazione di questo tipo, poiché la sensibilità del regista palermitano è molto diversa da quella di Dario Argento, e inoltre il suo cinema non ha radici “di genere”; ciononostante, Guadagnino è un cinefilo appassionatissimo che vede Argento come uno dei suoi maestri, e decide di ripercorrerne le tracce per filtrarle attraverso la propria esperienza, il proprio inconscio e la propria emotività, esplorando territori che l’originale ignorava, oppure si limitava a sfiorare.

La decisione di ambientare la storia nel 1977 (anno in cui uscì l’horror argentiano), e per di più a Berlino, è già di per sé una presa di posizione forte: al contrario della maggior parte dei remake, questa versione non intende aggiornare il suo progenitore, bensì approfondirne le implicazioni nel tessuto storico-sociale, innescando un dialogo fra danza, esoterismo, cronaca nera e politica. L’americana Susie Bannion (Dakota Johnson) sostiene un provino per la Markos Tanz Company, dove insegna la leggendaria Madame Blanc (Tilda Swinton), che nota il suo talento e l’accoglie subito nella compagnia. Una delle ballerine, Patricia Hingle (Chloe Moretz), scompare misteriosamente dopo aver confessato al suo psicanalista di sentirsi in pericolo, e di credere che la scuola nasconda una congregazione di streghe; le autorità, però, sono convinte che Pat si sia unita alla Rote Armee Fraktion, e le danno la caccia come terrorista. Questa tesi non convince alcune allieve della scuola, tra cui Sara (Mia Goth), ma ogni diserzione sfocia in qualcosa di orribile, e ben presto Susie si ritrova al centro di un mistero inquietante.

Diviso in sei atti e un epilogo, Suspiria fa buon uso della sua notevole durata – al netto di qualche lungaggine – per comporre un mosaico ricco di sfaccettature, delineandosi come un macabro melodramma che cerca l’essenza primigenia dell’orrore. L’austero modernismo delle ambientazioni schiaccia i personaggi in trappole senza uscita, e gli interni della Markos Tanz Company si trasfigurano in spazi mentali che raramente comunicano con l’esterno, e danno solo un’illusione di vastità (come nella sala prove con gli specchi). Compresse in questi luoghi angusti, le coreografie di Damien Jalet diventano un poema di corpi esasperati, disarticolati, affamati di luce e libertà, che ricorda il Tanztheater di Pina Bausch e influenza il rapporto fra la dimensione terrena e quella fantastica: non a caso, la frenesia estatica della danza è fondamentale nei riti esoterici, ed esprime il legame profondo tra le streghe e la natura. Ciò che ne risulta è un ritratto crudele dei rapporti umani, nonché una disamina del femminile come forza conflittuale, tormentata e potenzialmente distruttiva, contrapposta a un maschile razionale che la osserva con meraviglia e spavento; a tal proposito, non è un caso che tutti i ruoli principali del film (sì, tutti) siano interpretati da donne: la battaglia di Suspiria è interamente femminile, ed evoca un mistero su cui Guadagnino e lo sceneggiatore David Kajganich s’interrogano di continuo, abbacinati e terrorizzati dal suo enigma imperituro.

Le ambizioni storico-politiche del film nascono anche da qui. Il copione di Kajganich ruota attorno al tema della colpa, intesa soprattutto in senso collettivo: da un lato ci sono le responsabilità del popolo tedesco nella Seconda Guerra Mondiale, che si riverberano sul presente e alimentano la vergogna, come dimostra la tragica storia dello psicanalista; e dall’altro ci sono le colpe degli uomini nei confronti delle donne, un discorso di oppressione e sopraffazione a cui si contrappone la congrega di streghe. D’altra parte, il 1977 è stato un anno cruciale per le lotte femministe, ma è stato anche l’anno della morte di Andreas Baader (co-fondatore della RAF), la cui ombra si proietta sulla Berlino di Suspiria attraverso la minaccia del gruppo eversivo e le proteste di piazza. Così facendo, Guadagnino incastona l’elemento magico nel flusso della Storia, creando un vivace contrasto fra la durezza delle ambientazioni e i lampi del sovrannaturale. Su questo frangente, peraltro, il cineasta non si risparmia: gli incubi di Susie brulicano di simbologie che sfiorano l’orrore metafisico, mentre il sangue scorre copioso e le carni marciscono nel disgusto fisiologico. Non è un film di tensione, ma senza dubbio è un horror animato da inquietudini striscianti, raffinatissimo nelle soluzioni di montaggio e nei movimenti di macchina, mentre le musiche di Thom Yorke imprimono un clima radicalmente diverso rispetto all’originale (ben più riflessivo e sofferente, in questo caso).

Guadagnino, insomma, riesce nel suo intento: offrire una visione alternativa del cult argentiano per omaggiarne la mitologia e approfondirne i legami con la Storia, dove i peccati dell’uomo nutrono gli orrori dell’irrazionale, assecondando un circolo vizioso che non sembra avere fine. Le uniche speranze di salvezza sono racchiuse nell’innocenza del singolo individuo, ancora capace di soffrire per amore o attribuirsi responsabilità non proprie: nella semplicità dell’inquadratura finale c’è tutto un mondo di rimpianti silenziosi, sospiri melanconici e sentimenti mai tramontati, incisi nella memoria come due iniziali sulla corteccia di un albero.

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