Schiavi di New York #13 – Sweet Charity

Schiavi di New York #13 – Sweet Charity

Di Adriano Ercolani

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Uscito nell’anno in cui il cinema hollywoodiano cambiava definitivamente pelle grazie a capolavori quali Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1969), Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969) o Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid, 1969), l’esordio alla regia del grande Bob Fosse si pone come un ibrido clamorosamente stridente, un musical sospeso tra due epoche in radicale contrasto tra loro. Da una parte infatti Sweet Charity (id., 1969) risente ancora dell’influenza del periodo classico del genere, quella che vedeva il numero musicale come espressione di spettacolo (possibilmente sfarzoso) ed energia propositiva; dall’altra invece lo stesso Fosse, colui che più di ogni altro ha stravolto tali regole, inizia a far intravedere al pubblico un qualcosa di nuovo: nel tono e nel senso di alcune performance possiamo infatti già gustare le vibrazioni sensuali e violente di ciò che saranno poi opere di rottura quali Cabaret (id., 1972), All That Jazz (id., 1979) e Chicago (id., 2002), adattato poi per il cinema da Rob Marshall.

Che l’opera di Fosse non sia omologabile secondo gli standard del prodotto hollywoodiano classico lo si capisce addirittura ancor prima dei titoli di testa, grazie a un’overture musicale lunghissima che anticipa su schermo nero. Le immagini si aprono poi su Charity (Shirley MacLaine) che cammina sorridente per le strade di New York. Il tatuaggio che ha sulla spalla sinistra ne definisce immediatamente lo status sociale: si tratta di una “ballerina”, una donna ai margini di quella collettività che regola la morale comune. Fin dalle prime immagini la MacLaine sfodera quel misto di dolce innocenza e ingenua sensualità che ha contraddistinto i momenti migliori della sua gloriosa carriera. Il primo, brevissimo numero musicale è dedicato a New York, che l’ottimismo di Charity dipinge come un posto fantastico in cui vivere. I versi della canzone civettuola assumono immediatamente la giusta ironia dal momento che vediamo Charity pagare l’hot dog al suo “presunto” spasimante, il qualche chiaramente non si interessa a lei. La fotografia del leggendario Robert Sturtees adopera i grattacieli Central Park West come sfondo ad effetto per isolare la coppia mal amalgamata. Quando l’uomo la getta nel laghetto dal ponte per rubarle il denaro, i cittadini seduti sulle panchine a oziare la degnano appena di uno sguardo mentre rischia di affogare, come a testimoniare che non importa quale sia il tono o la storia che il cinema vuole raccontare: New York è sempre New York…

Il mondo cambia totalmente prospettiva adesso che Charity è senza un soldo, fradicia e col cuore spezzato da Charlie. E Bob Fosse cambia immediatamente il registro del film: quello che sarà lo stile del musical nel decennio successivo viene mostrato nel primo numero musicale dentro il club in cui la ragazza lavora: la musica diventa sincopata, il suono si spezza, i colori esplodono nel chiaroscuro di volti e corpi. L’atmosfera di scalda, la sessualità più esplicita che pervaderanno Cabaret e All That Jazz è già ampiamente contenuta in Sweet Charity, almeno a sprazzi. Il cast di ballerine che espongono in maniera accattivante la loro sensualità, la volontà di sedurre i clienti è un topos ricorrente nella filmografia di Fosse. Lo stile di regia si fa estremamente contemporaneo, con angolazioni di inquadratura azzardate, zoom vorticosi e una cadenza di montaggio che lascia spazio alla performance.

Ma Sweet Charity  – ispirato liberamente da Le notti di Cabiria (id., 1957) di Federico Fellini – è ancora un film in bilico tra due modi di intendere il musical, come dimostra la prima performance compiuta di Shirley MacLaine quando il suo personaggio si trova a casa del famoso attore Vittorio Vitale (Ricardo Montalban): la libertà di Fosse è assoluta, tanto che sceglie di interrompere la narrazione per introdurre a suo piacimento un numero per l’attrice, senza che abbia o quasi alcun legame con la storia. E’ poi la stessa MacLaine a creare uno stridore armonico: lei che proviene da un modo intendere il musical considerabile “classico”, lei che è una performer che fa della simpatia e dell’essere ”buffa” la sua forza primaria, al servizio di Fosse viene adoperata per un tipo di numeri decisamente più sfrontati: nel suo assolo sul palcoscenico, nei movimenti e nella coreografia, il personaggio di Charity anticipa idealmente la fisicità e lo spirito della Sally Bowles di Liza Minnelli. La parodia della New York dei club più altolocati si esplicita ad esempio in un balletto magnificamente coreografato, la cui danza in qualche modo mette alla berlina la moda della beat generation degli anni ’60. Il regista continua ad amare e parteggiare per le sue “donne della strada”, quelle del bassi fondi, molto più “calde” e vere. Non per nulla la dominante del balletto al club è un blu freddo, mentre in precedenza la dominante cromatica nel bordello era un rosso caldissimo.

Le stravaganze cinematografiche di Bob Fosse continuano on la scena di Charity e Oscar (John McMartin) intrappolati nell’ascensore, spezzata a metà da un intermezzo come se il film fosse un vero e proprio spettacolo di Broadway. Da quel momento però il film si sviluppa su un asse narrativo più consolidato, quello della commedia romantica. Nel raccontare come la ragazza sembri aver finalmente trovato il vero amore Fosse predilige un impianto di regia molto teatrale, scegliendo spesso di seguire i personaggi con la macchina da presa nei loro spostamenti invece di usare il montaggio. Ecco però arrivare all’improvviso un altro straordinario momento di pausa dalla narrazione, la sequenza della “chiesa”, o meglio spettacolo hippie messo in scena in un garage con le luci delle automobili a fungere da quinta. In questa scena siamo proiettati invece in pieni anni’70, preludio sfavillante di un film estremo quale Jesus Christ Superstar (id., 1973) di Norman Jewison. Di questo momento musicale rimane l’incredibile performance di Sammy Davis Jr., amico di lunga data della MacLaine. Procedendo con la storia d’amore tra i due Fosse riesce a piazzare anche un paio di momenti di regia estremamente raffinata come ad esempio il confronto/svelamento nel ristorante, girato con un primissimo piano dell’uomo mentre lei di spalle gli confessa il suo vero lavoro. Ed è qui che emerge definitivamente la grandezza del “tipo fisso” della MacLaine, capace di sfidare la morale comune con la sua ingenuità e gioia di vivere. Non solo in Sweet Charity ma anche in L’appartamento (The Apartment, 1960) e Irma la dolce (Irma la Douce, 1963), entrambi dell’intramontabile Billy Wilder, dove interpretava rispettivamente l’amante del suo capo e una prostituta. L’anno successivo al film di Fosse verrà Gli avvoltoi hanno fame (Two Mules for Sister Sara, 1970) di Don Siegel , dove l’attrice fingerà addirittura di essere una suora quando la sua occupazione è ben altra…

Se Sweet Charity è un film quasi interamente costruito in interni, di evidente stampo teatrale, il pre-finale esplode nel suo omaggio a New York nel momento in cui la protagonista trova finalmente qualcuno che afferma di amarla: il montato musicale è infatti girato tutto in esterni, vagando senza logica dal Lincoln Center al Brooklyn Bridge e altri luoghi iconici della città. La gioia di Charity è metaforicamente incontenibile, ha bisogno di straripare per le strade della città. Immediatamente però ecco che il film ripiomba in una stanza, stavolta grigia e senza vita: è infatti nell’ufficio dei documenti che si dipana la scena dell’abbandono di Oscar, e in cui in un solo primo piano si esplicita la grandezza di attrice drammatica di Shirley MacLaine. E’ in questo momento che Fosse espone e sbugiarda la morale bigotta dell’epoca attraverso il personaggio dell’uomo, ipocrita e meschino quando dice di non poter sposarla perché incapace di sopprimere le sue idiosincrasie. Tale rottura drammatica però serve come preludio per il bellissimo, poetico finale in cui Charity trova conforto e speranza nelle nuove generazioni, quelle che promulgano amore e regalano fiori. Il finale metaforico voluto da Bob Fosse è quasi utopistico. Ma ciò che veramente conta è che alla fine Charity torna a immergersi nelle strade di New York sola ma serena, senza finalmente bisogno di avere accanto alcun uomo…

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