THE DOC(MANHATTAN) IS IN – The Outsider: Jared Leto, l’ultimo samafioso

THE DOC(MANHATTAN) IS IN – The Outsider: Jared Leto, l’ultimo samafioso

Di DocManhattan

Jared Leto assassino della yakuza. Ripetiamo: Jared Leto killer della mafia giapponese. Sin dall’annuncio e dai primissimi trailer, The Outsider non si è esattamente guadagnato le simpatie di Internet. Perché sì, ok, non è esattamente credibile che un americano diventi un membro di un clan della yakuza, neanche (soprattutto?) nella Osaka post-bellica. Ma è d’altronde proprio sulla premessa assurda, sull’alieno in un paese alieno di suo, che il film, prodotto da Netflix e sbarcato sulla piattaforma due giorni fa, si gioca tutte le sue carte. Su quello e sulla faccia di Leto, impassibilmente al centro della scena per due ore. A leggerne le recensioni della critica USA, The Outsider è una delle pellicole peggiori degli ultimi tempi e probabilmente della storia dell’umanità tutta. Ma sarà davvero così?

Come tanti figli perduti di Hollywood – molti dei quali, dopo aver vagato in un limbo che non è il ballo di Trinidad in cui ti disintegri le ginocchia, finiscono ora sul materasso delle piattaforme di streaming – The Outsider avrebbe dovuto essere una bestia molto diversa. Diverso quanto un film diretto da Takashi Miike e interpretato da Tom Hardy. Alla fine la parte è andata a Jared Leto e alla regia c’è finito Martin Zandvliet, dell’angosciante, bellissimo Land of Mine – Sotto la sabbia. La storia è quella di un americano che entra in contatto con uno yakuza in carcere, Kiyoshi (Tadanobu Asano, tra le altre cose l’Hogun dei film Marvel). E per un debito di riconoscenza e una bottigliata si trova a diventare un membro di un clan, nella Osaka del 1954. Sì, con i tatuaggi, le dita mozzate e tutto il resto.

Di The Outsider è apprezzabile lo sforzo di confezionare una crime story stilosa partendo da una trama fondamentalmente lunga due righe. Il solito pasticcio di amori, sgozzamenti, tradimenti e vendette, come ne trovi in centinaia di altri film e serie TV sui delinquenti di qualsiasi buco del pianeta. Hai visto Il Camorrista di Giuseppe Tornatore, metti, li hai visti tutti: non c’è neanche bisogno di scomodare Narcos e altre produzioni contemporanee. Il punto, però, è che alla base del tutto, data per buona la premessa bislacca del gaijin che si fa riempire la schiena di carpe koi e che non può giocare più a flic e floc, come l’arcivescovo de Il secondo tragico Fantozzi, non c’è lo scontro culturale Oriente-Occidente, come in Black Rain di Ridley Scott o Silence di Scorsese. È tutto Giappone, ma a tratti c’è l’Occidente e basta.

Buona parte degli attori sono giapponesi, le ambientazioni sono impeccabili (probabilmente l’aspetto migliore del film, insieme a una piacevole fotografia) e il ritratto dei soldati USA del conflitto conclusosi da pochi anni non è di certo idilliaco, anzi. Ma The Outsider resta un film scritto da un americano e diretto da un danese. C’è questa spinta didascalica nello spiegare in modo semplice il crimine organizzato giapponese e il suo mondo a un pubblico straniero. Il sumo, la katana, lo yubitsume accorciadita, il denaro, i tatuaggi, le intimidazioni. Anche con un certo rispetto, non fosse che tutto si piega (la storia e i suoi protagonisti) davanti a Leto. Che arriva, si prende quello che vuole, fa strada in fretta, come il protagonista di un gioco della serie GTA. La sensazione di fondo è che stia spiegando alla malavita locale come fare meglio quel lavoro. Proprio il white washing culturale di cui tanti parlavano prima dell’uscita? Sempre ammesso che di cultura vogliamo parlare quando l’oggetto sono comunque dei mafiosi. Magari – ma magari, eh – è molto meno corretto e culturalmente irriverente portare sul grande schermo Memorie di una geisha e affidare tutti i ruoli principali ad attrici che non sono giapponesi. Qui, alla fine, sono assassini che si ammazzano, conta quello che conta.

Leto, dal canto suo, continua a interpretare sostanzialmente Niander Wallace di Blade Runner 2049. In fuga da un passato in larga parte misteriosa (buona così), freddo e inamovibile davanti a tutto, ma poi pronto agli scoppi di violenza incontrollata e alla ricerca dell’amore. Praticamente una versione trapiantata nel Giappone anni 50 e senza giubbetto con lo scorpione del protagonista di Drive di Refn. Ma a) Leto è fatto così, a volte le sue prove sono così blande che ti chiedi come abbia fatto a vincere un Oscar, b) la sua performance da manichino tatuato è comunque molto funzionale al tipo di personaggio. Una macchina di morte, che intimorisce tutti per la sua freddezza, appunto. Ottimo Asano, in palla gli altri attori nipponici, da Nao Omori alla idol Shiori Kutsuna, vista nel film live action di BECK. Con una storia leggermente meno scontata, insomma, rischiava di venirne fuori un film addirittura piacevole, premessa bislacca e tutto.

Peccato che la storia scontata lo sia però anche troppo. Un’infilata di cliché in cui al traditore hanno rifilato il nome di un mostro shintoista, giusto per bruciare subito quei cinque minuti di dubbio a chi ha visto un po’ di anime in vita sua, fosse pure solo Jeeg robot d’acciaio. Quindi? Il film insulso e terribile di cui parlano tante recensioni USA, facendone precipitare la media su quel male dell’umanità noto come “aggregatori di voti”? No, personalmente non credo. Nel senso che esiste tanto altro di decisamente più inguardabile, e non solo su Netflix. È generico e mai brillante, ma come lo sono tante altre crime story. Solo con un’ambientazione piacevole e degli attori anche bravi, che non ti fanno rimpiangere troppo le due ore spese per guardarlo. A patto, chiaro, di riuscire a mandar giù la premessa dello yakuza yankee. Lì se non ce la fate, non ce la fate.

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