Memento, Mementote! – Togliere

Memento, Mementote! – Togliere

Di Marco Nucci

La neve plana sul vicolo lentamente. Fiocchi enormi, che sembrano quelli finti di un film natalizio. Fumo una Chesterfield che sa di freddo, osservando con occhi vuoti il manifesto del film in programma stasera al Roma d’Essai di Bologna: Paterson, di Jim Jarmusch. Inizia tra dieci minuti, dentro la gente sta facendo il biglietto. Io invece fumo, e attendo Ginevra. L’ho conosciuta qualche giorno fa, a una festa in casa. Non so di chi fosse, la casa: sono finito lì per caso, seguendo degli amici. C’era così tanta gente che alla fine non ho capito chi era il padrone. Ma forse la colpa non è stata della gente, ma di Ginevra, così bella che non sono riuscito a guardare altro per tutta la sera. In cucina c’era un concerto: un concerto vero, con basso, chitarra e tutto il resto. Pare che a Berlino i live in cucina siano una moda. Ginevra era seduta in un angolo buio, a osservare il cantante sparare acuti con il vocoder in direzione del frigorifero. Mi sono seduto, abbiamo parlato. Lei è una poetessa. Normalmente, la cosa mi infastidirebbe, ma nel caso di Ginevra è diverso: vive il suo problema con le parole (è lei a chiamarlo così) con incredibile disinvoltura. Inoltre è brava, le hanno appena pubblicato un libro. Un libro vero, brossurato, con le alette. La copertina è bianca, e al centro c’è una sua foto: il volto è sottile, la pelle da bambola gotica, gli occhi tristi. Un angelo depresso.
Al cinema è appena uscito un film che parla di un poeta!” ho urlato, cercando di farmi sentire sopra l’assolo di chitarra che si stava consumando all’ombra dello spremiagrumi. “O meglio, di un autista dell’autobus che di nascosto è anche un poeta! Se ti va, uno di questi giorni lo andiamo a vedere insieme! Lo danno al cinema sotto casa mia!
Un autista dell’autobus poeta?” ha domandato Ginevra, sgranando gli occhi depressi e sorprendendosi più del dovuto.
Si, lo so, suona male. Ma il film è di Jarmusch, io mi fido! Allora, che ne dici?
Ginevra mi ha lanciato un sorriso, che si è acceso sul suo volto triste come un intruso. Lei è una canzone di accordi in minore, e quella è stata la sua apertura in maggiore sul ritornello. Meraviglia.
Va bene venerdì?” mi ha risposto.
Venerdì va benissimo, e così eccomi qua, a fumare sotto la neve del vicolo, in attesa. Sono ormai le nove quando mi squilla il telefono. È lei. Rispondo.
Ironia della sorte…” mi dice. “Dal poeta che guida l’autobus siamo passati alla poetessa che lo perde… Mi spiace un sacco, il prossimo è tra mezz’ora, arriverei lì dopo le dieci…
Sono seccato, lo ammetto, ma al contempo anche sollevato: entrare in una sala buia in compagnia di un angelo è un qualcosa che anche a trent’anni suonati mi mette una certa soggezione.
Non fa niente…” sussurro, mentre il mio piede destro spegne la sigaretta in modo meccanico.
Sicuro che non fa niente?” mi chiede lei con voce dolce.
Sicurissimo…” replico. “Vai a casa, Ginevra, che c’è questa cazzo di neve…
Va bene se facciamo domani alla stessa ora?

Va benissimo, e così eccomi di nuovo qua, davanti al Roma D’essai, a fumare un’altra Chesterfield fredda. Sono passate ventiquattro ore, non nevica più, l’asfalto del vicolo è lastricato di pozzanghere. Le conto. Sono quindici. Ieri sera sono rientrato nel mio appartamento a testa bassa, ho mangiato una pizza ai funghi e ho riguardato La collina del disonore con Sean Connery. Grande film. Prima di dormire, ho pensato a Ginevra.
Perché scrivi poesie?” le ho chiesto la sera in cui ci siamo conosciuti.
Perché non so scrivere la prosa…” ha risposto lei. “E tu perché scrivi i fumetti?
Per lo stesso motivo…” ho convenuto.
Il concerto in cucina era finito, il batterista ha messo su un caffè per fare l’Irish coffee. “Dove cazzo è la panna?” ha esclamato, indispettito. È un dettaglio che ricordo.
Dove abiti?” ho chiesto distrattamente, ma la mia voce è suonata strana. “Non sono un serial killer…” ho puntualizzato, per sicurezza.
Sto vicino al Baraccano…” ha risposto Ginevra, con il sorriso in maggiore ancora aperto sul volto.
Siamo vicini, io sono in Strada Maggiore…
Quella sera l’ho accompagnata a casa. Ero nervoso, come se avessi di nuovo sedici anni. Ginevra mi fa quell’effetto lì. Avete presente?
Chissà se poi ha trovato la panna?, mi sono chiesto mentre avanzavamo su piazza Aldrovandi.
A cosa pensi?” mi ha domandato lei, che si era ficcata le mani in tasca e avanzava a testa bassa.
Alle parole…” ho risposto, improvvisando. “Ne taglio sempre un sacco, quando scrivo. Le vorrei togliere tutte… Ma non si può!
Già…” ha commentato lei. “Non si può…
Quindici pozzanghere. È la decima volta che le conto. Non sono aumentate, non sono diminuite. E intanto, dentro, il film è iniziato. Nessuna traccia di Ginevra. La chiamo, non mi risponde. Aspetto per altri venti minuti, ne fumo un’altra, me ne vado. Ancora una volta, niente Paterson. Sono incazzato, ma neanche troppo: gli appuntamenti che vengono rimandati in eterno mi ricordano Il fascino discreto della borgesia di Buñuel, con Fernando Rey che vorrebbe cenare con gli amici ma alla fine non ci riesce mai. Il surreale, quando accade nel reale, è un lusso.
Dormo male, sogno che il re di bastoni è scappato dalla carta del mazzo di piacentine, e che quindi in casa non si può più giocare a briscola. “Vuole conquistare Bologna, quel piccolo bastardo con la corona…” mi dice Isaak, nel sogno. “E poi chissà, forse il mondo!” aggiunge, preoccupato. La visione si conclude così, con un soffuso senso di minaccia che grava sul salotto di casa, ricostruito mirabilmente dal mio subconscio.
Il giorno dopo, blimp, Ginevra mi scrive su facebook: Perdonami, faccio schifo… Ho fatto tardi al corso di recitazione serale, avevo la batteria del telefono scarica. Perché non riproviamo domani? Ti va bene?
Va benissimo, ma se questa volta non arrivi, alle nove entro.
Non arriva. Spengo la sigaretta, entro. Il film è meraviglioso, forse un pelo compiaciuto nella figura del cane, ma maestoso in tutto il resto. Jarmusch abbassa il volume della narrazione, poi lo abbassa ancora, poi ancora. Sussurra e, alla fine, è il silenzio. Non importa cosa il film abbia raccontato, è una questione di approccio. E l’approccio è limpido. È acqua.
Un film sul silenzio…” commento tra me e me sulla via del ritorno, anche se non sono sicuro che sia vero. Ma perché Ginevra non è venuta?

Perché non sei venuta?” le domando tre settimane più tardi, mentre passeggiamo ai Giardini Margherita.
Avevo perso di nuovo l’autobus, ma non sapevo come dirtelo… Non mi avresti creduto, no?
No!” sorrido, poi le tiro una palla di neve, dritta in mezzo a quei suoi occhi depressi. Lei ride, poi contrattacca. Non ricordo altro di quel giorno.
Passano un paio di mesi. Ginevra ora si è trasferita a Torino.
Per un periodo ho abitato nel vecchio appartamento di Gustavo Rol!” mi aveva detto durante il live in cucina. Chissà, forse ora ci è tornata. Non ci siamo più sentiti.
L’ultima notizia su di lei me l’ha data il corriere della TNT, quando mi ha recapitato a casa una busta con dentro il suo libro di poesie. L’avevo ordinato su internet.
Ho aperto la busta. Sopra il libro c’era un foglio. Sul foglio, una scritta in bella calligrafia. A pagina 5 ti ho scritto una dedica. Ginevra, diceva il messaggio.
Ho aperto il libro, sono arrivato a pagina 5, non ho trovato niente. Lì per lì ho pensato che si fosse sbagliata, magari infilando nella busta un’altra copia, oppure che mi avesse fregato per l’ennesima volta.
Mi sono reso conto della verità soltanto qualche ora più tardi, mentre camminavo su piazza Aldrovandi nella direzione inversa a quella percorsa quella sera con Ginevra.
Le ha tolte tutte, mi sono detto.
Si.
Le aveva tolte tutte.

MARCO NUCCI
Nato nel 1986 a Castiglione dei Pepoli, frequenta il DAMS cinema per poi occuparsi come libero professionista di video editing. Dal 2012 è direttore artistico del festival sul fumetto “Crime City Comics: Dylan Dog”. Dal 2015 è redattore e sceneggiatore presso la Sergio Bonelli Editore. Ha pubblicato 2 libri a fumetti con la casa editrice Tunué.

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