Schiavi di New York #2 – The Addiction

Schiavi di New York #2 – The Addiction

Di Adriano Ercolani

“Non siamo cattivi a causa del male che facciamo. Facciamo del male perché siamo cattivi.”

Con tale, perentoria affermazione sull’essenza della natura umana la predatrice Annabella Sciorra chiude la querelle riguardante il tema del libero arbitrio che rappresenta il cuore nero di The Addiction e, a ben vedere, di tutto il miglior cinema realizzato da Abel Ferrara. All’orrore non ci si ribella perché si è incapaci di farlo: al contrario la pulsione umana più recondita, nascosta sotto le fondamenta delle regole sociali, è quella di abbracciarlo. L’ingenua protagonista del film Kathleen Conklin, la stessa che all’inizio condanna scioccata le immagini delle stragi in Vietnam, finirà per organizzare lei stessa il banchetto di sangue a chiusura della sua parabola di vampiro. “Dimmi di andar via. Non chiedermelo: ordinalo” le sussurra la Sciorra prima di morderla all’inizio del film. E seppur terrorizzata Kathleen non lo fa. In questa scena il volto di Lili Taylor è solcato dall’ombra di una grata che metaforicamente la imprigiona dietro le sbarre del destino che l’aspetta. Non esiste veramente scelta, solo accettazione.

Per tentare di scardinare l’ipocrisia di una società americana la quale, soprattutto negli anni ‘90, si credeva innocente o semplicemente troppo distante per essere toccata dall’orrore – il decennio successivo a partire dall’11 settembre 2001 le dimostrerà in maniera drammatica l’esatto contrario – Abel Ferrara ribalta il più abusato degli stereotipi e mette in scena la sua delirante metafora della dipendenza ambientandola non tra i gradini più bassi della scala sociale ma in mezzo all’”intelligenza” che in teoria dovrebbe indirizzare il Paese. The Addiction è un film paradossalmente “borghese”, quasi interamente ambientato nelle strade del West Village intorno la New York University. I personaggi principali sono studenti e professori che si mescolano con malcelato senso di superiorità in mezzo ai giovani teppistelli di quelle strade, per abusarne a proprio piacimento. Sotto questo punto di vista Kathleen, una volta “svegliata” dalla sua nuova condizione, prende coscienza della vuotezza dell’ambiente in cui si muove: il suo vampirismo rappresenta una ribellione interna radicale e dicotomica, che nel corso del film spesso contrappone discorsi “alti” come ad esempio l’analisi del Determinismo filosofico alla violenza dell’aggressione fisica da parte dei personaggi trasformati in vampiri. Ma questo non è il ribaltamento più importante che il regista propone nel suo horror esistenziale: come già anticipato la protagonista e la predatrice che la trasforma sono donne, non più vittime di uomini ma carnefici che devono rispondere solo alla propria natura, o meglio conviverci. Non a caso il personaggio della Sciorra, assassina sensuale e senza scrupoli, si chiama Casanova, irridente sberleffo al maschilismo che spesso accompagna le storie di vampiri. Il rapporto di potere tra uomo e donna in The Addiction è quasi sempre sconfessato, ribaltato in maniera programmatica. E questo rende quest’opera quanto mai attuale.

Nel rappresentare la sua idea di uno stato sociale che soffoca l’istinto umano ingabbiandolo in regole arbitrarie Ferrara come sempre mescola le carte, confonde lo spettatore non concedendogli neppure i più semplici punti di riferimento estetici. Il bianco e nero contrastato della magnifica fotografia di Ken Kelsch ad esempio non consente quasi mai di capire se le scene sono ambientate di giorno oppure sono le luci abbaglianti delle notti newyorkesi a illuminare i personaggi. Lo scopo è quello di spiazzare e insieme smascherare il torpore in cui il singolo individuo vive – o sarebbe meglio scrivere vegeta – cibandosi del dolore che la storia continua a servirgli. Anche il lavoro sul sonoro è indirizzato a togliere tali certezze al pubblico: nella scena in cui Kathleen attacca il giovane teppistello che l’ha sessualmente provocata in precedenza il suono della città è forte, pulsante, eppure l’aggressione avviene in un vicolo deserto. E’ come se Ferrara volesse costantemente ricordarci che il male è sotto gli occhi di tutti, tangibile appena sotto la superficie della vita ordinaria, eppure continua a perpetrarsi impunito. Se l’eroina del film all’inizio si indigna per l’orrore delle vittime del conflitto nel Sud Est asiatico, una volta entrata a far parte di quello stesso circolo di produttori di morte ecco che allora anche lei prende a muoversi insensibile tra i corridoi dell’esibizione dedicata all’Olocausto. Ma la sua nuova natura è poi così distante dal bambino che fissa inespressivo la gigantografia dei corpi nelle fosse comuni? Oppure sono un prodotto della stessa società?

All’improvviso però per Kathleen si spalancano le porte della salvezza quando inavvertitamente adesca Peina (Christopher Walken), un essere molto più vecchio di lei che ha piegato la propria sete a una volontà ferrea: “My habit is controlled by my will” le spiega il vampiro che si aggira tra i mortali come un essere umano, che come loro è tornato a essere capace di ingerire cibo e defecare. Attraverso questo personaggio Ferrara sembra dirci che l’unico modo di fronteggiare il nichilismo sui il film si poggia è l’addestramento che conduce al rigore. Quando Peina si ciba del sangue di Kathleen si può intuire, addirittura sperare, che anche la disciplina possa essere contagiosa, allo stesso modo del caos che accompagna la dipendenza. E’ una questione di scelte, come sancisce quella di Kathleen che abbraccia definitivamente il suo lato oscuro scappando da tale possibilità.

Eppure non tutto è corruttibile. Il prete interpretato da Michael Imperioli si rifiuta di seguire Kathleen nel vicolo oscuro, scatenando quella rabbia incontenibile che sfocerà nel bagno di sangue di una sequenza finale impossibile da dimenticare (omaggio implicito a un altro classico in bianco e nero come La notte dei morti viventi di George A. Romero). Ecco che, proprio quando la ragazza sembrava aver accettato la sua natura e soprattutto quella di un universo il cui regna il sangue, la fede di un singolo uomo ne mina le convinzioni. C’è molto, moltissimo Abel Ferrara in quest’ultimo sussulto di spinta verso la salvezza dell’anima. Dopo aver consumato il proprio banchetto, andata in overdose sia in senso fisico che metaforico, Kathleen risorge (prima di tutto a sé stessa) e sarà allora capace di tornare a muoversi tra i mortali come essere “civile”. Non sono l’intelletto o le regole sociali che potranno salvare l’individuo. Sarà lui stesso, attraverso l’accettazione della sua natura e la fede in un qualcosa capace di trascenderla.

Dimenticato dai più, anche tra i fan dello stesso Abel Ferrara, The Addiction è il tassello più radicale e programmaticamente disturbante della filmografia del cineasta newyorkese. Un gioiello amaro che deve essere riscoperto, fosse anche soltanto per ammirare le strade piene di dolore di una New York mai così allucinata.

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