Blade Runner 2049 o dell’insostenibile pesantezza dell’irrilevanza

Blade Runner 2049 o dell’insostenibile pesantezza dell’irrilevanza

Di Roberto Recchioni

Di Roberto Recchioni

Come sapranno anche i sassi, l’originale Blade Runner si basa (a grandissime linee) sul romanzo Il Cacciatore di Androidi (Do Androids Dream of Electric Sheep?) di Philp K. Dick, pubblicato nel 1968. Sin da subito, il testo suscitò l’interesse del cinema e vari tentativi di portarlo sullo schermo si succedettero, fino all’interessamento di Michael Deeley che, contattando Ridley Scott, rese il tutto operativo. Molte versioni e riscritture dello script furono fatte e non pochi furono i problemi produttivi durante la lavorazione del film. Inoltre, Scott aveva una visione molto precisa di come il film sarebbe dovuto essere e un’idea chiara degli artisti e dei talenti che dovevano essere coinvolti, non accentando nemmeno i piccoli compromessi (pochi) a cui aveva dovuto cedere nella realizzazione di Alien. Questa volta, per esempio, Syd Mead (uno dei più grandi artisti e visualizer di tutti i tempi, specializzato nel disegnare l’aspetto meccanico e urbanistico del futuro) ci sarebbe dovuto essere e non si sarebbe accontentato dei suoi (comunque validissimi) discepoli, come era stato costretto a fare nel film con lo xenomorpho. Stesso discorso per gli effetti speciali dove aveva preteso non solo il meglio degli artisti e degli artigiani sulla piazza, ma anche che questi lavorassero limitando al minimo gli effetti ottici per concentrarsi, invece, sulla costruzione di enormi modellini, macchinari realmente funzionanti in scala 1:1 e al design di un infinità di props (gli oggetti scena). Per non parlare dello sforzo che chiese ai costumisti, ai decoratori dei set e via dicendo.

Aggiungiamoci feroci tensioni tra il regista e la crew statunitense (Scott ne voleva una inglese), tra Scott e Harrison Ford (che si sentiva trascurato dal regista), i costi che lievitavano di giorno in giorno, il tempo a disposizione per le riprese bucato e i produttori che minacciavano di ritirare il loro investimento, e capirete facilmente che il fatto che Blade Runner esista è un mezzo miracolo irripetibile.
Ma per inquadrare meglio tutta la sua produzione bisogna capire in che momento storico si trovava Hollywood in quei tempi. Alle spalle, c’era il cinema degli anni ‘70, con il suo impegno, la sua serietà, la sua voglia di sperimentare. E, soprattutto, c’era il cinema di fantascienza di quegli anni, adulto, maturo, cerebrale, complesso, realmente derivato dalla letteratura in cui affondava le sue radici. Quel tipo di cinema che aveva dato al mondo pellicole come 2001 Odissea nello Spazio, Solaris, Stalker e sì, anche Alien. Dall’altra parte, c’era il mondo nuovo, immaginato da Lucas e Spielberg che, come uno tsunami, stava iniziando a spazzare via tutto con i suoi effetti speciali, i suoi buoni sentimenti e il suo divertimento.

In mezzo a questi due poli sostanzialmente antitetici, c’erano i baroni di Hollywood, che come sempre cercavano di andare dove tirava il vento, tutti alla ricerca di uno nuovo Star Wars ma pure, ancora, con la mente ancorata a un certo tipo di autorialità. 
È solo in condizioni di confusione come queste che un film come Blade Runner trovò le condizioni per venire alla luce. Perché se è vero che era di fantascienza e che la fantascienza tirava in quel periodo, e se è pure vero che aveva come protagonista Han Solo, non somigliava per niente alla fiaba immaginata da George Lucas. E nemmeno all’incubo orrorifico di Alien.
A dire il vero, Blade Runner non somigliava a niente di mai visto prima. E quando Scott presentò il suo primo montaggio, se ne accorsero tutti. Ora, la cosa che Hollywood teme di più è l’opera diversa da tutte le altre. Perché è un’incognita, perché non ti puoi rifare all’esperienza pregressa, perché è difficile da comunicare e, soprattutto, da vendere. La seconda cosa che Hollywood teme è l’assenza di un happy ending.
Per questo, Blade Runner non vide la luce degli schermi così come Scott l’aveva immaginato ma venne sostanzialmente addomesticato con una voce off del protagonista che commentava tutto il film, spiegandone i passaggi più oscuri e dava a tutta la pellicola una riconoscibile e rassicurante atmosfera noir in stile Fiamma del Peccato, e con un finale positivo posticcio, ottenuto utilizzando del girato non utilizzato da Kubrick per Shining. Il film, oltretutto, uscì in due versioni: la Domestic, solo per il mercato USA e privata di alcune delle scene più violente, e la International, per tutti gli altri mercati, con quei momenti reintegrati.
Questo non bastò a salvare gli incassi.

Blade Runner costò parecchio, sia in termini di soldi spesi, sia di fatica, ma quando uscì al cinema andò malissimo. Il grande pubblico, semplicemente, lo ignorò.
La critica e una nicchia di appassionati, invece, lo adorarono e il film, lentamente, assurse allo stato di cult movie. Con la sua uscita in VHS e il conseguente successo, tutti si accorsero che quel film, negli anni era cresciuto, diventando un classico amato da milioni di spettatori.
Cavalcando il buon momento, la pellicola tornò in sala in un’edizione definita Director’s Cut.
Per questa edizione permisero a Scott di apportare alcune modifiche sostanziali.
Venne eliminata la didascalica voce off e la scena finale e venne integrata una scena inedita, un sogno in cui Deckard vedeva un unicorno (la sequenza non era stata girata per il film ma erano delle riprese non utilizzate di Legend, pellicola sempre firmata da Ridley Scott ma successiva a Blade Runner) che gettava una luce del tutto diversa sul protagonista, chiarendo senza ombra di dubbio che anche Deckard era un replicante. Era questo il Blade Runner definitivo? No.
Nel 2007, Scott riaprì ancora il film, rimasterizzando l’immagine e il suono, cambiando alcune transisizioni, ripulendo vari dettagli, e consegnando al mondo la prima versione della pellicola totalmente figlia della sua direzione, senza nessuna ingerenza esterna. Nacque così la Final Cut.
In sostanza, dal 1981 (data di inizio della riprese) alla sua versione definitiva, ci sono voluti ventisei anni per vedere davvero Blade Runner. Se poi contiamo da quando si è iniziato a parlare di trarre un film dal romanzo di Dick, di anni ce ne sono voluti trentanove.

Blade Runner 2049 è stato girato in tre mesi, post-prodotto e montato negli undici mesi seguenti, arrivato nelle sale ti tutto il mondo questa settimana.
Se vogliamo essere di manica larga e iniziare a contare da quando il progetto ha avuto luce verde dai produttori e si è iniziato a scrivere lo script (nel febbraio 2015), allora possiamo dire che per realizzare il sequel del capolavoro di Scott sono stati necessari due anni e dieci mesi.
Nessuna notizia a proposito di problemi o tensioni è mai circolata riguardo al film.

E la mia tentazione, sarebbe di chiudere su questa nota la recensione. 
Ma non lo farò perché sarebbe ingiusto nei confronti dell’ottimo lavoro svolto dal regista Denis Villeneuve e dal suo direttore della fotografia, il maestoso Roger Deakins.
Perché sì, nonostante una trama inutilmente involuta, qualche lungaggine, un personaggio femminle irritante, un antagonista non risolto e un conflitto finale privo di tensione e girato al risparmio in un non-luogo, Blade Runner 2049 è un ottimo film, ricco di elementi di pura eccellenza.
Tutte le algide inquadrature centrali di Villeneuve (più vicine a Kubrick, Tarkovsky e a Mann che a Scott, a dire il vero) in cui il regista sfoggia un senso estetico sopraffino, capace di trasformare ogni volo dello Spinner Peugeot guidato dall’agente K in un quadro in movimento.
O l’incredibile capacità di Deakins di giocare con la luce e il colore, donando a ogni scenario un suo stile senza perdere mai un briciolo di coerenza.
O la splendida, davvero splendida, scena di lotta tra K e Deckard.
E, più in generale, la forma complessiva della pellicola, di rara perfezione e misura, con pochissime sbavature (tra cui il già citato e sorprendentemente deludente scontro finale).
Ma il problema è che “ottimo film” nel caso del seguito di Blade Runner, non basta.

Perché il sequel di Villeneuve è tremendamente complicato dove il film di Scott era semplice.

Quattro criminali fuggitivi sono alla ricerca di qualcosa mentre un uomo di legge li insegue e li uccide uno a uno.”
Questa era la storia del Blade Runner originale.
Un’indagine per scoprire non si bene cosa viene condotta da un replicante con dei problemi d’identità che è pure innamorato del Siri del suo telefono, mentre un magnate cieco cerca di creare un nuova razza di schiavi e dei ribelli cercano di rovesciarlo.”
Questa è, semplificata, la storia di 2049.

Perché il sequel di Villeneuve è tremendamente piatto dove il film di Scott era infinitamente stratificato.

Che cosa significa essere umani? Cos’è la realtà? Sono i ricordi a definirci o la maniera in cui reagiamo al momento presente? Perché la morte? Come possiamo accettarla? A che servono le nostre esperienze se tutto andrà perso come lacrime nella pioggia?
Questi alcuni dei tempi del Blade Runner originale.

Che cos’è l’amore?
Questo è l’unico tema originale e non mutuato da quando già detto da Scott, in 2049.

Perché il sequel di Villeneuve non ci mostra nulla di nuovo rispetto a quando avevamo già visto.
Non un oggetto, non uno scenario, non un cartellone pubblicitario, sembrano mai inediti.
L’unico elemento di novità è dato dalle IA da compagnia, assistenti digitali in forma di ologramma che però in tante opere speculative erano già apparse.

Perché il film originale di Scott è pieno di scene d’azione che hanno un significato drammatico, mentre il sequel di Villeneuve è pieno di significati drammatici che non diventano mai azione.
Ogni ritiro di un lavoro in pelle di Blade Runner comporta azione, tensione, dramma e significato.
L’azione, in 2049, c’è in tre scene: una di servizio (il momento con Bautista), una bella (quella dello scontro tra Deckard e K) e una orrenda (lo scontro finale). Senza stare a scomodare la profondità del confronto tra Deckar e Roy Batty, o l’atroce violenza e bellezza di quello tra Deckard e Priss, basterebbe il momento con Zhora e Leon per capire l’abisso che passa tra il primo Blade Runner e il suo seguito.

Perché nel primo Blade Runner c’erano solamente tre personaggi femminili, uno protagonista e due marginali, semplicemente magnifici, mentre il seguito è pieno di figure femminili ma tutte con lo spessore della carta velina.
La replicante cattivona senza motivazioni, la bella prostituta dal cuore d’oro (hai Mackenzie Davis e la sprechi così… mah!), il duro capitano di polizia (uscito direttamente dal più stereotipato poliziesco anni ‘80) e la bambolina elettronica che ha la stessa valenza del portachiavi a forma di labbra che Cristopher Lambert si portava dietro nel terribile I Love You di Marco Ferreri, non valgono una singola sigaretta accesa da Rachel.

Perché Blade Runner è, e rimane, un’opera rilevante per il cinema, mentre 2049 non sposta di un centimetro la palla del linguaggio.
E questa è la ragione ultima che mi portano a definire come “trascurabile” il sequel di Villeneuve. Sia rispetto al cinema tutto, sia nei confronti della sua brillante cinematografia.

In conclusione: l’aspetto positivo è che nessun replicante è stato maltrattato durante le riprese di Blade Runner 2049. L’aspetto negativo è che è passata meno di una settimana da quando l’ho visto in anteprima, e lo sto già dimenticando.

Illustrazione esclusiva per ScreenWEEK di Roberto Recchioni

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