Feud: recensione della prima stagione, “Bette and Joan”

Feud: recensione della prima stagione, “Bette and Joan”

Di Andrea Suatoni

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Si è conclusa lo scorso 23 Aprile sul canale americano FX la straordinaria corsa della prima stagione di Feud, nuova serie antologica creata da Ryan Murphy e che ci ha raccontato la storia del travagliato rapporto (ed il grande antagonismo) fra due delle più grandi attrici dello scorso secolo: Bette Davis (interpretata da Susan Sarandon) e Joan Crawford (nei cui panni si è cimentata una delle attrici favorite di Murphy, Jessica Lange).

BABY JANE E L’INIZIO DELLA FINE

La serie non ci racconta l’inizio della rivalità fra le due attrici: scopriremo solo al termine della stagione invece che l’incipit ci ha trascinato all’interno della storia a partire dall’ultimo momento in cui le due avrebbero potuto (e voluto) davvero diventare amiche. Complici il maschilismo e l’assoluta mancanza di rispetto delle varie figuri maschili che hanno permeato la serie, su quel fuoco che avrebbe potuto essere forse spento è stata gettata benzina, facendo divampare un incendio che ha continuato a bruciare per 8 struggenti episodi. La Lange e la Sarandon hanno accompagnato i fan dalla lavorazione del film Che fine ha fatto Baby Jane? alle conseguenze di esso, fino alla fatidica notte degli Oscar 1963 ed all’inarrestabile declino della Davis e della Crawford, che hanno comunque lottato fino alla fine illudendosi di poter travalicare un ageismo ed un sessismo di cui gli anni ’60 e ’70 erano impregnati.

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L’IMPRONTA MURPHYANA

Il lato tecnico nelle serie FX by Ryan Murphy è sempre estremamente curato, al limite della perfezione: ci aspettiamo infatti una pioggia di Emmy per Feud alla prossima cerimonia, così come è stato lo scorso anno per American Crime Story: The People V O.J.Simpson.

Il casting ha superato sé stesso: Jessica Lange e Susan Sarandon sono state non solo perfette nell’interpretare le due grandi attrici del passato, ma sono state in grado anche di creare una perfetta alchimia nelle scene dentro e fuori dai set che hanno occupato assieme e di retrodatare la loro recitazione ad un livello d’altri tempi, lasciandoci spesso perdere nell’illusione di star osservando più un documentario con scene davvero rubate alla realtà che una rappresentazione seriale (di un documentario). Ma anche gli attori di contorno non sono da meno: Stanley Tucci nei panni di Jack Warner riesce a creare un personaggio deliziosamente odioso, mentre Alfred Molina (il regista Robert Aldrich) e Judy Davis (la giornalista di gossip Hedda Hopper) completano il quadro tratteggiando due personaggi ambigui vinti dalla propria voglia di emergere, castrati ognuno a suo modo da uno star system che li ha fagocitati e costretti a dimenticare la loro morale. Senza dimenticare il contributo di attrici del calibro di Kathy Bates e Catherine Zeta-Jones, nei panni rispettivamente di Joan Blondell e Olivia de Havilland.

La regia, la fotografia ed il montaggio omaggiano continuamente le atmosfere dell’epoca in cui la serie è ambientata, con moltissimi stacchi sui film (re)interpretati dalla Sarandon e dalla Lange nei panni dei loro alter ego. Una vera e propria ricostruzione storico-stilistica che attenua i toni di originalità e sperimentazione tipici delle produzioni Murphyane, a ragione di un più attento sapore estetico che non solo demolisce l’ormai inesistente ed obsoleta gerarchia Cinema-Televisione (più volte maliziosamente criticata nei dialoghi dei personaggi della serie), ma innalza il risultato finale rendendo lampante quanto alcune storie necessitino di una trattazione seriale per essere adeguatamente narrate e riesce in definitiva in pratica a ribaltare quella gerarchia. La TV alla pari se non sopra il cinema, soprattutto nel momento in cui indaga, con i suoi tempi molto più pacati, su di esso.
Esplicativo il triste momento finale in cui Bette Davis osserva il tributo postumo a Joan Crawford: un paio di secondi sullo schermo di una TV, a fronte di una vita che abbiamo tragicamente vissuto in 8 intensi episodi.

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“E’ CIO’ CHE OTTERREMO TUTTI NOI”

Il declino delle due protagoniste è tratteggiato in Feud all’inizio con humor nero ed inquietudine, per poi aumentare la sensibilità e la tragicità delle scene proseguendo di episodio in episodio. Come nel caso di American Crime Story, la storia doveva seguire un binario prestabilito, e gli showrunner sono stati geniali nel procedere della narrazione: quasi tutti i piccoli particolari di ciò che conoscevamo di pubblico rispetto alla reale faida fra le attrici è stato inserito all’interno della serie, dalle battute ciniche e sardoniche della Davis ai diversi rapporti di Joan con le sue tre figlie; il lato nascosto (e quindi romanzato) della storia unisce tutti i puntini in maniera discontinua, provando ad indagare all’interno di una verità che non conosceremo mai ma che, pur tratteggiando spesso negativamente sia l’una sia l’altra protagonista, fornisce giustificazioni e motivazioni non solo credibili, ma condivisibili e molto spesso anche commoventi.

La Davis e la Crawford hanno cercato fino all’ultimo di tornare alla ribalta, in un mondo (non solo un’epoca) che in realtà non glielo avrebbe mai permesso: è qui che la critica di Murphy si fa più pungente, poiché seppure più raramente anche oggi ad Hollywood riescono a ripetersi le stesse storie che abbiamo visto narrare in Feud. La battuta amara di Susan Sarandon a seguito del tributo a Joan Crawford cela una verità difficile da cancellare (“E’ ciò che otterremo tutti noi”): pochi secondi di gloria è tutto ciò che è possibile ottenere. Una conclusione cui entrambe le protagoniste sono arrivate, in fondo: la Davis dopo essersi immedesimata nei panni della sua storica “nemica” ed ancor più tragicamente la Crawford, che in un toccante delirio realizza di aver vissuto sempre e solo come Joan Crawford e di aver dimenticato chi fosse davvero Lucille: il suo vero nome che in Feud era utilizzato, non a caso, solamente da Bette Davis.

Perché Bette era l’unica che avrebbe potuto capire e forse trovare la vera Lucille, e viceversa, come Dominic Burgess pronuncia nei panni di Victor Buono: una nota di tristezza aggiunta (acuita ancor più dalla scena in cui Bette non riesce a parlare con Joan al telefono) che umanizza totalmente le figure delineate, dandoci l’idea che si sia raggiunto l’apice non solo a livello di narrazione seriale e caratterizzazione in fase di scrittura, ma anche di splendido omaggio alle persone più che ai personaggi, durato ben più di qualche effimero secondo. Finalmente.

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