Ghost in the Shell – La recensione del film con Scarlett Johansson

Ghost in the Shell – La recensione del film con Scarlett Johansson

Di Lorenzo Pedrazzi

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Tra gli anime giapponesi e i blockbuster hollywoodiani c’è un gap culturale apparentemente incolmabile, palese sia nei ritmi narrativi sia nello sviluppo dei sottotesti tematici, e il passaggio dai cult animati ai colossal americani è spesso traumatico, se non addirittura fallimentare. Ghost in the Shell, dal canto suo, ha quantomeno il merito di imboccare una strada diversa: invece di fagocitare l’originale nipponico, tenta di mediare tra le sensibilità delle due produzioni per giungere a un interessante compromesso.

Ghost in The Shell Scarlett Johansson foto dal film 23

L’incipit del film è molto simile a quello di Mamoru Oshii, e anche la trama è inizialmente fedele all’anime del 1995. In un futuro ipertecnologico, il Maggiore Mira Killian (Scarlett Johansson) è il primo cyborg della sua specie, un corpo robotico cui è stato impiantato il cervello di una donna, attribuendole così i pregi di una macchina e le qualità di un essere umano. Il Maggiore guida la task force della Sezione 9, un’agenzia che combatte il cyberterrorismo, e si ritrova a dare la caccia all’enigmatico Kuze (Michael Pitt), sofisticatissimo hacker che prende di mira tutte le persone coinvolte nel misterioso Progetto 2501. In una società dove gli impianti cibernetici sono la norma e quasi tutti sono costantemente connessi a una rete, Kuze sembra capace di raggiungere chiunque, persino il Maggiore, che suscita in lui un particolare interesse. L’indagine porterà Mira sulle tracce del suo passato, scoprendo la verità dietro alle sue origini.

Ghost in The Shell Scarlett Johansson foto dal film 10

Salta subito all’occhio come il processo di adattamento sia di stampo culturale, oltre che creativo. Il regista Rupert Sanders innesta vari elementi della storia originale su un tracciato più consono al gusto occidentale (massificato), grazie a una sceneggiatura che confeziona un gioco di rimandi fra il passato del Maggiore e la trama investigativa: in tal modo, il film non dà niente per scontato e si adegua alle esigenze dei “profani”, ovvero quella larga maggioranza di spettatori non iniziati al manga o all’anime. Ghost in the Shell trova quindi la coerenza interna di un prodotto a se stante, peraltro giustificando in modo fantasioso (ma sensato) la scelta di un’attrice americana per interpretare un personaggio orientale. Etnia a parte, Scarlett Johansson ha la fisicità adatta per riprodurre l’iconografia del Maggiore, anche se il film non le concede molte opportunità espressive. Il copione è infatti obbligato a individuare ulteriori espedienti per giustificare l’azione (più corposa rispetto all’anime di Oshii), cercando un difficile equilibrio con il lato introspettivo della vicenda. L’obiettivo può dirsi complessivamente centrato in virtù di tempi narrativi piuttosto insoliti per un blockbuster americano: se si escludono le sequenze d’azione, Ghost in the Shell adotta un passo quasi meditativo, ponderato, figlio dell’originale giapponese e del tentativo di mediazione tra due stili di racconto profondamente diversi, alla ricerca di un intrattenimento “adulto” che unisca spettacolo e sfumature riflessive.

Ghost in The Shell foto dal film 2

Di fatto, il cammino della protagonista ha una centralità maggiore rispetto al film di Oshii (e qui emerge la necessità tutta occidentale di riproporre il viaggio dell’eroe), poiché Mira/Motoko è un’anima solitaria che si pone domande sulla sua natura, alienata da una metropoli opprimente dove reale e virtuale si compenetrano senza soluzione di continuità, come accade peraltro al suo stesso corpo di cyborg. Vivendo a metà strada fra l’universo materico e quello digitale, l’eroina non trova la sua collocazione definitiva in nessuno dei due mondi, anche se tale disorientamento sfocia in un epilogo meno coraggioso e più convenzionale. L’attualità del franchise risiede proprio in questa convivenza tra reale e virtuale, sempre più equiparati nella loro rilevanza morale e sensoriale, al punto da renderli quasi indistinguibili. Tra enormi ologrammi che infestano la città come kaiju, un prologo dal sapore “metafisico” e sequenze di hacking che ricordano la videoarte, Ghost in the Shell si esprime più compiutamente sul piano visivo che su quello verbale: in effetti, i dialoghi che evocano le implicazioni della singolarità suonano un po’ didascalici, ma in compenso l’elaborazione digitale delle immagini garantisce effetti molto suggestivi, nonché più pregnanti a livello tematico. I grandi panorami, le inquadrature silenziose, le scene ad ampio respiro: è qui che Rupert Sanders riesce a trovare la chiave giusta, più che nel confronto diretto tra i personaggi.

Ghost in The Shell Pilou Asbæk Yutaka Izumihara Chin Han Lasarus Ratuere Tawanda Manyimo foto dal film 2

Sarebbe ingiusto e un po’ infantile parlare di lesa maestà, nel senso che questo adattamento – pur nei limiti di un blockbuster hollywoodiano – si sforza davvero di rendere giustizia alla saga giapponese, e in buona parte ci riesce. La stessa presenza di Takeshi Kitano (duro e glaciale come uno dei suoi vecchi gangster) somiglia a un tentativo di auto-legittimazione, teso a dimostrare sensibilità e rispetto verso un altro modo di fare cinema, un altro paese e un’altra cultura. Il figlio di questa unione condivide il DNA di entrambi i genitori, trovando la sua identità in un “giusto mezzo” fra le due vie.

Ghost in the Shell Scarlett Johansson foto dal film 1

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