Westworld, la recensione dell’episodio 1.03: The Stray

Westworld, la recensione dell’episodio 1.03: The Stray

Di Lorenzo Pedrazzi

Mai paga della sua complessità, Westworld approfondisce ulteriormente il suo discorso con The Stray, terzo episodio della serie, dove la “psicologia” degli androidi assume nuove sfaccettature…

Attenzione: il seguente articolo contiene SPOILER

Dolores Abernathy (Evan Rachel Wood) continua le sue sedute con Bernard Lowe (Jeffrey Wright), che percepisce in lei il cambiamento: si pone domande sulla sua natura, su chi sia realmente, e sta acquisendo coscienza di sé. Intanto, Elsie (Shannon Woodward) analizza il comportamento di Walter (Timothy Lee DePriest), un host che ha sterminato gli androidi che lo hanno ucciso in passato, cedendo a una sorta di rancore; durante la carneficina, il robot parlava con una persona invisibile. Il sistema di sorveglianza segnala che un altro robot sta vagando per il deserto, lontano dalla sua storyline, quindi Elsie e Stubbs (Luke Hemsworth) vengono incaricati di recuperarlo.
William (Jimmi Simpson) salva Clementine Pennyfeather (Angela Sarafyan) da un bandito, ma rifiuta la sua offerta carnale di gratitudine. Decide invece di dare la caccia a un ricercato, e coinvolge Logan (Ben Barnes) nell’avventura. Teddy Flood (James Marsden) uccide un criminale insieme alla sua partner, ma Maeve Millay (Thandie Newton) lo guarda in faccia e ricorda di averlo visto tra i corpi ammassati nel laboratorio. Dolores vuole fuggire con lui, ma Teddy dice di avere alcune questioni in sospeso: “un giorno”, quando le avrà risolte, potranno vivere insieme. Cerca di insegnarle a sparare, ma lei non riesce a premere il grilletto: la sua programmazione glielo impedisce. Robert Ford (Anthony Hopkins) lo richiama per aggiornare la sua backstory, dandogli un passato e una nemesi: un ex commilitone di nome Wyatt, convinto di parlare con Dio, che semina morte e distruzione perché ritiene che né i nativi americani né gli statunitensi siano degni di abitare la nazione. Tornato a Clearwater, Teddy rivede Dolores, ma lo sceriffo li interrompe: Wyatt sta terrorizzando le campagne nelle vicinanze, quindi Teddy parte alla caccia del criminale insieme ad alcuni compagni. Cadono in un’imboscata sulle montagne. Teddy spara contro i nemici ma le pallottole non hanno effetto, e viene ucciso a colpi di accetta.
Theresa Cullen (Sidse Babett Knudsen) è preoccupata dal fatto che Robert sia subentrato a Lee Sizemore (Simon Quarterman) nella gestione delle storyline. Robert svela a Bernard che un tempo aveva un socio, Arnold, il co-ideatore del parco. Arnold voleva che i robot sviluppassero la consapevolezza della propria natura, e sfruttò la teoria del pensiero bicamerale per fare in modo che la loro programmazione funzionasse come un monologo interiore: ecco perché Dolores sente una voce dentro la sua testa, e perché Walter parlava con una persona invisibile. Arnold sperava che, presto o tardi, la voce del robot sarebbe subentrata a quella della programmazione, donandogli l’indipendenza. Al contrario, Robert ritiene che gli host non siano “reali”, e che debbano essere considerati come macchine. Parallelamente, Elsie e Stubbs scoprono che l’androide fuggitivo ha inciso una costellazione su un pezzo di legno che stava intagliando, e lo trovano in un crepaccio tra le rocce. Elsie lo spegne, e Stubbs scende per recuperare la testa del robot. Quest’ultimo però si riattiva da solo, colpisce Stubbs e risale in superficie; solleva un enorme masso, sembra sul punto di scagliarlo su Elsie, ma invece lo usa per fracassarsi la testa.
Dolores, tornata a casa, trova suo padre ucciso dai soliti banditi. Uno di loro la trascina nella stalla per stuprarla, ma lei gli ruba la pistola e gliela punta contro: inizialmente non riesce a sparare, poi però l’immagine dell’Uomo in Nero (Ed Harris) si sovrappone a quella del bandito, e Dolores ricorda le innumerevoli volte in cui è stata violentata e uccisa dal sadico pistolero. A questo punto riesce a premere il grilletto, e spara all’aggressore nel collo. Fugge via, finché non incontra Logan e William accampati attorno a un fuoco, e sviene tra le braccia di quest’ultimo.

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La voce degli dei
Questi primi episodi di Westworld si configurano sempre più come un’immersione progressiva nella “psiche” degli androidi, alla ricerca delle cause che agevolano la loro evoluzione esistenziale. È un processo graduale, a tappe, dove l’acquisizione dell’autocoscienza passa necessariamente dal dolore: gli orrori del presente innescano il ricordo delle sofferenze passate, ed è attraverso quell’appiglio – come capita a Dolores nel finale dell’episodio – che i robot si smarcano dai loro schemi predeterminati, liberandosi così dal giogo dei creatori umani. The Stray parcellizza tali sintomi nel comportamento di diversi androidi, con effetti diversi a seconda del proprio trascorso: c’è chi si vendica delle vecchie ferite (Walter), chi vede l’orrore nel volto dell’altro (Maeve), chi contravviene alle sue stringhe di codice per autodifesa (Dolores) e chi vive un conflitto – insanabile? – tra la programmazione originaria e le voci che gli risuonano in testa (l’androide che vaga per il deserto, aggredisce Stubbs e infine si “uccide”). Sono le avvisaglie di un disagio crescente, all’interno di una situazione che si fa sempre più insostenibile.

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Se è vero che le backstory tengono ancorati gli androidi alle loro impostazioni iniziali (riecheggiando il classico insegnamento della letteratura secondo cui il modo migliore per caratterizzare un personaggio è attribuirgli un passato), allora Westworld continua a riflettere sull’artificiosità dei tòpoi narrativi, mettendone a nudo non solo il carattere fondamentalmente ripetitivo, ma anche l’importanza che ricoprono nella storia dei generi classici: i cliché sono una materia immediatamente riconoscibile, ormai radicata nell’immaginario collettivo, e molto difficile da sovvertire. Non a caso, Robert Ford fornisce a Teddy Flood una backstory stereotipata, con un antagonista infernale cui si oppone un eroe di buon cuore, che sogna una vita tranquilla al fianco della sua amata. Il punto, però, è che queste caratterizzazioni sono troppo schematiche per una creatura artificiale che ambisce al riconoscimento della sua individualità, sviluppando la consapevolezza di sé: Dolores è ansiosa di rompere il loop e fuggire via, lontano dal circolo vizioso della sua programmazione e dal logorio delle formule retoriche, come quel vago «someday» che Teddy le promette di continuo, e che in realtà significa “mai”. Quindi, prima ancora che dai loro carnefici umani, gli androidi devono liberarsi dalla prigione dei tòpoi, ovvero dai codici di un genere – il western – che li fossilizza in meccanismi reiterati e monolitici. Sul piano metanarrativo, si può parlare di una rivolta dei personaggi, più che dei robot.

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La storia di Arnold, il defunto co-ideatore del parco, è utile per approfondire le dinamiche alla base dei recenti sviluppi “psicologici”. La teoria della mente bicamerale viene sfruttata dallo scienziato per stimolare l’autocoscienza degli host, ma quel monologo interiore che dovrebbe rappresentare la loro programmazione – e che alcuni interpretano come la voce di Dio – riemerge ora nelle situazioni più imprevedibili, disseppellendo antichi ricordi e guidando gli androidi verso l’indipendenza comportamentale. Ciò che ne risulta è un dualismo insolubile tra due visioni estremamente polarizzate: da un lato c’è Arnold, che considera i robot come creature potenzialmente autonome, destinate a percorrere la loro strada attraverso quattro scalini fondamentali (memoria – improvvisazione – egoismo – autocoscienza); mentre sul versante opposto c’è Robert, che invece scoraggia l’empatia nei confronti degli androidi, perché «non sono reali». Lo stesso conflitto divide, seppur più rozzamente, anche William e Logan, laddove il primo “sente” la sofferenza degli host, mentre il secondo la ignora e li vede solo come strumenti per il proprio diletto.

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The Stray dimostra che Jonathan Nolan, Lisa Joy e la loro squadra di sceneggiatori sanno bilanciare la trama fra i diversi personaggi, alternando i riflettori su ognuno di essi per svilupparne le storie in modo coerenze: se nel secondo episodio Dolores e Teddy lasciano spazio a Maeve e all’Uomo in Nero, qui avviene il contrario, ma bastano poche inquadrature per rievocare il percorso di ognuno di loro (come nella breve apparizione di Maeve, quando guarda il volto di Teddy e lo rivede tra i corpi accatastati nel laboratorio). Alcune spiegazioni logiche sono ancora latitanti (perché i proiettili degli androidi non uccidono gli umani?), ma non importa. La cura nella costruzione delle immagini, i dialoghi sagaci e la scintillante confezione tecnica non fanno altro che ribadire la qualità della serie, davvero imperdibile: uno dei prodotti d’intrattenimento più intelligenti e raffinati degli ultimi anni.

La citazione:
«Credo che alle persone piaccia leggere riguardo le cose che vogliono di più, ma di cui hanno meno esperienza.»

Ho apprezzato:
– La riflessione sui cliché narrativi
– L’evoluzione graduale della “psiche” degli androidi
– Il dualismo tra Arnold e Robert
– L’ottima confezione tecnica e visiva
– L’idea della liberazione dei personaggi

Non ho apprezzato:
– Alcuni dettagli logici ancora trascurati (almeno per il momento)

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