Marvel’s Luke Cage – SPECIALE: notte sul set della miniserie Netflix

Marvel’s Luke Cage – SPECIALE: notte sul set della miniserie Netflix

Di Redazione SW

Articolo a cura di Adriano Ercolani

9 marzo 2016. Hancock Street, Bedford-Stuyvesant, Brooklyn. Esterno, due del mattino circa.

Il set allestito è quello di una battaglia urbana tra Luke Cage e uno dei “villain” che vedremo nell’ultima puntata della serie TV realizzata dal team Marvel/Netflix. Per fortuna la serata è piuttosto calda, quasi primaverile, perché le riprese richiedono molti effetti speciali meccanici e di dilungano. Alla fine della scena potremo finalmente incontrare il protagonista Mike Colter e il creator della serie Cheo Hodari Coker. Nel pomeriggio siamo stati negli Broadway Stages a Greenpoint, gli studi dove hanno girato gli esterni della serie. Tra i set allestiti che abbiamo visitato i più affascinanti sono senza dubbio stati la centrale di polizia di Harlem (dove Luke Cage è per buona parte ambientato) e l’Harlem Paradise, il locale che è uno degli ambienti principali per l’intera storia. Poi ci siamo spostati a Bedstuyvesant, in una piccola chiesa adoperata per girare una riunione tra cittadini. E infine Hancock Street.

Finalmente Mike Colter e Cheo Hodari Coker si liberano dalle riprese. Le prime domande che viene loro rivolta è cosa li ha spinti a realizzare Luke Cage e in cosa questa serie di differenzierà rispetto alle altre produzioni come Daredevil e Jessica Jones.

“Daredevil è un vigilante che vuole ripulire Hell’s Kitchen dal crimine, Jessica Jones un’anima ferita che deve imparare a usare i suoi poteri per aiutare gli altri. – Esordisce Colter – Luke Cage è semplicemente un uomo in fuga, uno che vuole nascondersi perché accusato di qualcosa che non ha fatto, evita di attirare attenzione su di lui. Quando tutto volge al peggio deve scegliere se agire o rimanere nell’ombra, questo è il dilemma del personaggio. Nel corso della storia capisce che se hai un potere come il suo devi usarlo per il bene delle persone comuni, è una tua responsabilità. Lungo il suo percorso sarà ispirato da chi non ha poteri ma sceglie di schierarsi per aiutare gli altri.”

LUKE CAGE – LEGGI LA RECENSIONE DEI PRIMI EPISODI

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“Mike ha ragione, la violenza non è catartica per Luke –continua Coker – Daredevil ad esempio ha bisogno di esternare le sue pulsioni combattendo fisicamente il male, non riesce a trovare altra soluzione ai suoi conflitti interni se non combattere per strada. La serie è fondamentalmente un dramma, l’azione e il combattimento scaturiscono sempre dalla necessità. I nostri non sono come gli altri show in cui è l’azione a dominare, per noi è sempre necessaria per la storia.”

Vedremo dunque un Luke Cage diverso da quello che è comparso in Jessica Jones? Colter non ha dubbi a riguardo:

“In quello show era un personaggio di supporto, qui invece si ritrova ad affrontare alcuni dei fatti che erano trapelati tra le righe nell’altra. Prima lo abbiamo conosciuto soltanto per come si relazionava a Jessica, ora invece scopriremo il suo proprio punto di vista, la sua vita. Luke è un’anima sola, che vuole trovare una connessione, come in fondo voleva farlo con Jessica, ma i loro problemi personali alla fine lo hanno reso molto complicato. Entrambi i personaggi stavano combattendo con i propri demoni quando si sono incrociati, si è trattato del momento sbagliato per loro. Esattamente come succede alla gente normale.”

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Come ci si prepara fisicamente per un personaggio che non può essere scalfito?

“Ho dovuto imparare a conoscere il linguaggio del corpo un uomo che non ha paura di farsi male, e questo cambia totalmente l’atteggiamento fisico. Un po’ come i grandi esperti di arti marziali, i quali controllano i propri movimenti in base all’arte che hanno imparato. Se qualcosa succede, sanno esattamente come reagire. Luke ha questa fiducia ma non la usa in maniera sfrontata, non è uno che vuole arrivare al confronto fisico, per lui il suo superpotere spesso è un fardello perché nella maggior parte dei casi sa che finirà per ferire qualcuno.”

Luke Cage è un supereroe afroamericano che opera ad Harlem: dobbiamo aspettarci uno show con rilevanze politiche e sociali? Stavolta risponde per primo Coker:

“La prima necessità è raccontare una buona storia, e se è la storia di un uomo di colore meglio ancora! Quello che mi ha attratto subito di Luke Cage è che non indossa una maschera, sai dove trovarlo, è immerso nella gente comune. Puoi dire la stessa cosa di Barack Obama o di molti politici che si riferiscono direttamente alla gente. Sento la responsabilità di raccontare una bella storia, è il fatto che sia anche culturalmente e socialmente rilevante è la ciliegina sulla torta. Quando ho raccontato la mia idea della serie alla Marvel, ho detto che sarebbe stata come City of God scritto dallo staff di The Wire. Sono saliti subito a bordo dell’idea. Credo che City of God, mescolando tutte quelle influenze culturali, civili, estetiche, era uno dei film hip hop. E The Wire è la miglior serie degli ultimi anni perché mescola politica, società, costume, crimine, tutto con un minimo di influenza letteraria. Ecco perché David Simon ha coinvolto nello staff di scrittori romanzieri come Richard Price, Dennis Lehane o George Pellecanos. The Wire raccontava storie di strada senza essere troppo pesanti, come stiamo facendo con Luke Cage.”

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“È una gran bella storia e il pubblico la vedrà a prescindere dal colore della pelle dell’eroe – continua Colter – Io ero un grande fan di Bruce Lee, non mi è mai passato per la mente di vederlo come un asiatico. Leggevo di lui, ne conoscevo la vita, sapevo cosa aveva ottenuto. Il pubblico più giovane ha bisogno di modelli a cui relazionarsi, figure a cui ispirarsi, capaci di scuotere loro coscienza. E questo va oltre l’etnia o la cultura di appartenenza. Io sono contento di avere questo personaggio perché è un buon esempio, se poi la gente ne parlerà perché è afroamericano ancora meglio. Viviamo in un mondo in cui le persone ancora vengono giudicate da come appaiono, spero che Luke Cage contribuisca anche in minima parte a incrinare quest’idea sbagliata.”

Coker vuole aggiungere altro alla sua risposta:

“Quello in cui la Marvel supera realmente la DC Comics è che ambienta le sue storie del mondo reale. Qui siamo a New York, non a Gotham City, i personaggi si muovono in un mondo più vicino al nostro, Luke gira in mezzo agli altri con una felpa e una maglietta. La felpa col cappuccio soprattutto è diventata negli anni un’icona molta della cultura dell’hip hop americano, la parola “hoodie” (felpa) spesso veniva adoperata in maniera dispregiativa come sostitutivo della parola “negro”. Quindi siamo ben consapevoli che l’abbigliamento di Luke è funzionale ma ha anche una sua valenza storico-politica. E ne siamo fieri perché il personaggio veicola idee positive.”

Il discorso viene spostato sulle differenze tra la serie TV e il fumetto originale di Luke Cage, che inizia negli anni ’70. Sempre Colter spiega l’approccio scelto per lo show:

“Non sono un amante dei fumetti, ho iniziato a leggerli quando ho avuto la parte, era importante per me capire la metodologia del personaggio e il tono della storia. Abbiamo deciso di avvicinarci più al Luke Cage della serie Alias perché è più contemporaneo, quelli originali usciti negli anni ’70 sono lontani da quello che stiamo cercando di fare, renderlo un uomo dei nostri giorni, contemporaneo. Ci siamo presi delle libertà rispetto ai fumetti per rendere la serie ancora più ancorata al nostro presente.”

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E adesso che si appresta a diventare una star dell’universo Marvel, come cambierà il suo rapporto con i fan?

“Onestamente non ne ho idea. Condivido con Luke una certa riluttanza a essere esposto al pubblico. Come attore ami ciò che fai, ma quando raggiungi una certa popolarità vieni oggettivato come prodotto disponibile per la massa, è una sensazione stranissima. Il mio rapporto con i fan è comunque ottimo, soprattutto quelli della Marvel sono molto più persistenti e audaci, con loro è sempre un susseguirsi ininterrotto di selfie. Li incontro soprattutto in aeroporto. Non sono un uomo dalla vita sociale troppo mondana, quindi quello è l’unico caso o quasi in cui vengo riconosciuto…”

Sono ormai quasi le tre del mattino. I due vengono richiamati sul set, bisogna finire la scena in cui sono stati preparati tutti gli effetti speciali. Nelle riprese successive l’antagonista dell’eroe è vestito con un costume scuro, ha un casco nero e qualcosa di luminoso sulla schiena, non si distingue benissimo dalla postazione dedicata alla stampa.

Il “villain” alza una motocicletta da terra come fosse un cuscino e la lancia contro Luke Cage, di fronte a una folla che assiste visibilmente allibita. Dell’inquadratura vengono girati alcuni ciak dal regista Clark Johnson, poi finalmente la giornata di lavoro si chiude.

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Cheo Hodari Coker viene a rispondere ad alcune altre domande di noi giornalisti. La prima riguarda la scelta della location: si è optato per Bedford-Stuyvesant perché somiglia ad Harlem?

“Sì, è il quartiere di Brooklyn che mantiene una popolazione prevalentemente afroamericana da generazioni, anche se la speculazione edilizia che vuole facilitare la cosiddetta “gentrification” sta cercando di sbattere fuori gli abitanti storici per sostituirli con nuovi arrivati, più giovani e ricchi, in modo da far soldi a palate. Questa zona è stata resa famoso da Notorius B.I.G., oggi è proprio il diciannovesimo anniversario della sua morte. Lo conoscevo, l’ho intervistato e ho scritto un libro su di lui. Per me è importante ricordarlo, e nello show lo faremo, perché la sua eredità nel mondo dell’hip hop oggi è più importante che mai. Il nuovo rap sta cercando di veicolare il proprio messaggio dentro nuovi media, io che non so fare musica anche se la amo sto cercando di trasportare tale messaggio e quella cultura in un altro canale, la TV appunto. Come i migliori rapper voglio raccontare storie di persone che corrono sul filo del rasoio, che hanno una loro profondità.”

Parlando di musica e TV, Luke Cage può essere in qualche modo paragonato a un grande disco del passato?

“Certo. Gli album che mi hanno spinto a diventare un giornalista musicale sono stati quelli di Public Enemy o Ice Cube. Erano fortemente politici ma avevano anche musica incredibile, che spostò i confini. Con il binge-watching adesso la gente consuma show televisivi alla maniera in cui ascoltava i dischi, tutti in una volta. Il miglior esempio di questo approccio per me rimane Sign o’ the Times di Prince. Tutti gli episodi di Luke Cage sono intitolati come canzoni, perché volevo che fosse come un album. Non è quindi solo il messaggio ma anche l’esperienza che conta. E il posto, perché quando parli di Harlem non puoi evitare di parlare della storia, della cultura, delle tragedie e dei trionfi di quel posto.”

Ci saranno degli omaggi alla stagione della blaxploitation americana?

“Sì ma solo in parte, è un fattore complementare che rischiava di catalogare troppo lo show, come successe per molti artisti dell’epoca. Gordon Parks ad esempio era un fotografo di rilevanza enorme ma è ricordato soltanto perché ha diretto Shaft. Io voglio che la gente guardi Luke Cage perché è un buono show, non perché appartiene a qualche movimento o cultura estetica.”

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Fonte: ScreenWeek

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