Il ritorno di TRON si fa sempre più ciclico, ma i lunghi intervalli tra ogni capitolo – diciotto anni tra il primo e il secondo, quindici tra il secondo e il terzo – corrispondono sempre a stagioni diverse della tecnologia di consumo. Se l’originale TRON (1982) cavalcava l’entusiasmo per la diffusione dei personal computer e l’alba del cyberpunk, TRON: Legacy (2010) ha anticipato la riscoperta della realtà virtuale nel decennio scorso, culminata nel fallimentare metaverso immaginato da Mark Zuckerberg. Dal canto suo, TRON: Ares riflette la nostra nuova consapevolezza nel rapporto con la suddetta tecnologia: non è più il “reale” a dover entrare nel “virtuale”, ma viceversa.
Questo cambiamento – già preannunciato dal finale di Legacy – risulta chiaro fin dal principio, ed è la chiave dell’intero film. Prima ancora dei titoli, un pratico riassunto ci aggiorna sul contesto: Sam Flynn (il personaggio di Garrett Hedlund nel capitolo precedente) ha lasciato la Encom per ragioni misteriose, e ora la società fondata da suo padre Kevin (Jeff Bridges) è guidata dalla CEO Eve Kim (Greta Lee), brillante game designer che ha rilanciato i videogiochi della compagnia. Nel frattempo, la rivale Dillinger Systems sta lavorando a un innovativo software di sicurezza, Ares (Jared Leto), presentato come «il supersoldato definitivo» dal CEO Julian Dillinger (Evan Peters). Quest’ultimo è infatti capace di materializzare Ares nel mondo reale, insieme ad alcuni potenti veicoli da battaglia, ma il codice è instabile: dopo 29 minuti, i software si disgregano e tornano nel Grid, il mondo virtuale. La soluzione è nascosta nelle ricerche di Tess Kim, scomparsa di recente per una malattia. Sorella di Eve, Tess ha scritto il rivoluzionario codice Permanence, che garantisce la sopravvivenza dei software nel mondo reale, senza limiti di tempo. Ovviamente fa gola a Dillinger, che sguinzaglia Ares e la sua luogotenente Atena (Jodie Turner-Smith) a caccia di Eve, sottovalutando però la curiosità e la sensibilità del supersoldato.
Elementi virtuali entrano quindi nel mondo reale, coerentemente con gli sviluppi della tecnologia di consumo: è ormai appurato che, come spiega Andrea Daniele Signorelli in questo articolo, il futuro sarà caratterizzato dall’espansione di massa della realtà aumentata, relegando la realtà virtuale all’ambito dei videogiochi; di conseguenza, non sorprende che la trama di TRON: Ares parta dall’idea di un software che si fa carne, e non da un corpo fisico che si fa digitale (come nei primi due capitoli). Nonostante il processo inverso esista ancora, e lo vediamo nella parte centrale del film, la sua rilevanza è molto più limitata, anche come semplice screen time. La maggior parte dell’azione si svolge in una città reale, contaminata però da inseguimenti con le lightcycle, fasci di energia rossa, tute e armi al neon realizzate con notevoli effetti pratici (i costumi sono di Christine Bieselin Clark e Alix Friedberg).
È chiaro che la sceneggiatura di Jesse Wigutow – autore del soggetto con David DiGilio – cerca di capitalizzare su alcuni temi di grande attualità, soprattutto la militarizzazione dell’intelligenza artificiale, ma non prova nemmeno ad approfondire il discorso oltre una semplice dicotomia manichea: da un lato l’IA come strumento di morte, dall’altro come risorsa per la crescita. Se mai, al film interessa di più l’umanizzazione della macchina, che comincia a provare sentimenti per lei incomprensibili. TRON: Ares è lontanissimo dalla complessità di Her o Westworld, capaci di riflettere sull’argomento in modo molto più articolato, e il suo limite è proprio nella caratterizzazione basilare dei personaggi, poco più che stereotipata; al contempo, però, l’evoluzione “emotiva” di Ares desta una certa tenerezza, come quando tenta di spiegare la sua passione per i Depeche Mode, ma non ci riesce perché spesso i sentimenti sfuggono alla ragione. Purtroppo, al film manca il coraggio di esplicitare il coinvolgimento tra lui e Eve, forse per paura di scivolare in ciò che il pubblico (o quantomeno una parte di esso) troverebbe “stucchevole”. Il rischio, però, è che i personaggi restino figurine senz’anima, prive di quelle passioni brucianti che le renderebbero davvero umane.
D’altra parte, il film stesso è un blockbuster al grado zero: la qualità tecnica è innegabile, gli attori sono funzionali ai loro ruoli, le scene d’azione sono discrete ma non memorabili, l’intreccio è prevedibile. Il valore aggiunto è la colonna sonora dei Nine Inch Nails, ma qui sortisce l’effetto di un condimento troppo saporito che soverchia l’intera ricetta. Se registi come David Fincher e Luca Guadagnino traggono il meglio dalle musiche di Trent Reznor e Atticus Ross, facendole dialogare perfettamente con le immagini, Joachim Rønning ne viene sopraffatto: il rock elettronico e industriale della coppia sfugge al suo controllo, martella sull’azione con implacabile fervore, e finisce quasi per distrarre dalla vicenda. Non è colpa della musica in sé, ma di come viene utilizzata; la dimostrazione è nei titoli di testa e di coda, dove l’integrazione visivo-sonora funziona molto meglio (come già era successo in Legacy con le tracce dei Daft Punk).
Peccato, perché le potenzialità per realizzare un intrattenimento più raffinato, plasmato da tendenze e riflessioni della contemporaneità, c’erano tutte; così, invece, è soltanto un revival degli anni Ottanta fuori tempo massimo, nonostante la buona volontà degli autori. Una volta TRON era sinonimo di innovazione tecnologica, mentre ora si adegua a modelli preesistenti, scintillanti ma incapaci di sorprendere.
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