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The Ugly Stepsister trova la liberazione nell’orrore

L'esordiente Emilie Blichfeldt valorizza gli aspetti più truci di Cenerentola in una potente riflessione sugli standard di bellezza.

Pubblicato il 28 ottobre 2025 di Lorenzo Pedrazzi

È curioso che The Ugly Stepsister venga descritto come “una rilettura horror” di Cenerentola, quando la fiaba stessa – almeno nella versione dei Fratelli Grimm, ovvero Aschenputtel – non manca di particolari truci. Del resto, le fiabe hanno sempre avuto un lato macabro, soprattutto nelle versioni rielaborate dal folclore, dove la punizione per i comportamenti avventati o immorali può essere molto violenta. L’esordiente norvegese Emilie Blichfeldt (anche sceneggiatrice) parte da questo retaggio di sangue e lo rielabora a modo proprio, rovesciandone il senso: orrore e “bruttezza” non sono una condanna, ma una liberazione.

Blichfeldt non è nuova alle riflessioni sugli standard di bellezza, come dimostrano già i cortometraggi How Do You Like My Hair? (2013) e Sara’s Intimate Confessions (2018). Anche in questo caso, la scelta della protagonista corrisponde a una dichiarazione di intenti: la fiaba è infatti narrata dal punto di vista di Elvira (Lea Myren), sorellastra di Agnes alias Cenerentola (Thea Sofie Loch Næss). Ingenua e sognatrice, Elvira fantastica di sposare il Principe Julian (Isac Calmroth), autore di poesie d’amore che fanno battere il cuore a tutte le ragazze. Il confronto con Agnes, però, la mette in difficoltà: laddove quest’ultima è snella e attraente, Elvira si sente invece grassa, sgraziata, e odia la gobba sul suo naso. Nemmeno la madre Rebekka (Ane Dahl Torp) crede che sua figlia possa accasarsi, mentre la più giovane Alma (Flo Fagerli) è ancora sul confine tra infanzia e adolescenza. L’improvvisa morte del padre di Agnes getta tutti nello sconforto, compresa Rebekka, che pensava di aver trovato nel nuovo marito una soluzione ai suoi problemi economici; peccato però che anche lui era pieno di debiti. Così, quando Julian indice un ballo per tutte le vergini del regno, Rebekka decide di investire i soldi rimasti per riplasmare fisicamente Elvira, focalizzandosi in primo luogo sul naso della ragazza.

Comincia qui un brutale percorso di trasformazione, dove il body horror non è frutto di contagi o mutazioni speculative, ma della pura e semplice azione umana. Spronata dalla madre – e da ideali di bellezza nocivi ma interiorizzati – Elvira sottopone sé stessa a orribili torture, cesellando il suo corpo in accordo ai gusti degli uomini. In tal modo, si piega a una concezione della femminilità imposta dallo sguardo maschile, e non è certo un caso che il Principe mostri la sua vera natura nella reificazione della donna, nella celebrazione della violenza; d’altra parte, come dice Virginie Despentes in King Kong Theory, «lo stupro […] è la rappresentazione cruda e diretta dell’esercizio del potere», in quanto «specificità dell’uomo». Le vergini, istruite per essere docili e remissive, devono compiacere questo istinto predatorio: il modo in cui Elvira si presenta al ballo è emblematico.

Ovviamente non c’è nulla di sbagliato in lei. All’inizio del film, Elvira ama mangiare dolci, indossa un apparecchio per i denti e cerca di consolare Agnes dopo la morte del padre, ma quest’ultima la caccia in malo modo. La Cenerentola di The Ugly Stepsister non è indiscriminatamente “buona e gentile” come nella fiaba, ma esprime un notevole classismo nel suo atteggiamento verso la sorellastra, come pure verso lo stalliere di cui è innamorata. In un film che pone il corpo al centro del discorso, Blichfeldt non dimentica affatto gli impulsi della carne, la curiosità morbosa del sesso: anzi, riporta la fiaba ai suoi elementi più viscerali e “materici”, aggiungendone di nuovi. Lo fa con uno sguardo che valorizza la scoperta e il mistero, certamente legato a David Cronenberg e Julia Ducournau, ma anche vicino a un “naturalismo” che – per contrasto – rende ancora più potenti le sue derive grottesche. In effetti, Blichfeldt si rivela abilissima a gestire il disgusto: ciò che Elvira fa a sé stessa è talmente assurdo da imporre una distanza critica, ma al contempo ci induce a proseguire la visione, a vedere fin dove si spingerà per soddisfare le aspettative maschili (e sociali).

Eppure, il suo è paradossalmente – e inconsapevolmente – un percorso di liberazione. L’esasperata ricerca di bellezza porta Elvira a oltrepassare i confini del lecito, demolendo proprio ciò la rendeva attraente: un’evoluzione mostruosa, la sua, che finisce per liberarla sia dal controllo della madre sia dall’assoggettamento agli uomini e ai loro desideri. Non è un processo volontario, ma è innegabile che accada; e il merito è in gran parte della sorella Alma, presenza silenziosa e potente che attraversa tutto l’arco del film. In fondo, The Ugly Stepsister è anche una parabola sulla sorellanza, intesa come solidarietà fra donne oppresse che imparano a vivere secondo le loro regole.

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