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Springsteen: Liberami dal nulla, tormento e rinascita del Boss con un grande Jeremy Allen White

Scott Cooper racconta un passaggio decisivo nella vita di Bruce Springsteen, tra delicatezza intimista e schemi tradizionali.

Pubblicato il 20 ottobre 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Il biopic musicale, forse il genere più codificato e ripetitivo degli ultimi anni, si è ormai ramificato in due filoni distinti: da un lato le produzioni più impetuose ed eccentriche (Rocketman, Better Man, Kneecap), dall’altro quelle più dolenti e intimiste (Back to Black, Bob Marley: One Love, A Complete Unknown). Springsteen: Liberami dal nulla appartiene ovviamente a quest’ultima categoria, avvicinandosi soprattutto al film di James Mangold su Bob Dylan, con cui spartisce una comunità di sguardo e di intenti. Anche il regista e sceneggiatore Scott Cooper, infatti, opta per la soluzione più arguta: non racconta l’intera esistenza di Bruce Springsteen, ma un periodo cruciale e circoscritto, a partire dal libro Deliver Me from Nowhere di Warren Zanes.

L’arco narrativo è compreso tra il 1981 e il 1982, anche se il film inserisce vari flashback sull’infanzia di Bruce, concentrandosi in particolare sul difficile rapporto col padre Douglas (Stephen Graham). È un elemento piuttosto ricorrente nei biopic musicali: se pensiamo a Shine, Walk the Line, Love & Mercy e Better Man, il dialogo con la figura paterna è spesso fonte di ansie e conflitti che si riverberano fino alla vita adulta. Nel 1981, Bruce Springsteen (Jeremy Allen White) ha 32 anni, ed è costantemente in lotta con la propria linea ereditaria maschile, della quale teme di ricalcare le orme: il padre alcolizzato trascorreva le serate al bancone di un bar, e il piccolo Bruce veniva mandato dalla madre Adele (Gaby Hoffmann) a recuperarlo. Nulla di tutto questo, però, si riflette sul palcoscenico, dove Bruce si esibisce sempre con straordinaria energia; lo vediamo bene all’inizio del film, quando canta Born to Run davanti a una folla delirante.

Tuttavia, il Boss ama la vita tranquilla: prende casa nel natio New Jersey, lontano dal caos di New York City, e si fa consegnare un portastudio – registratore portatile a quattro piste – dall’ingegnere del suono Mike Batlan (Paul Walter Hauser). La Columbia spinge per un nuovo album, ma Bruce non ha fretta, deve chiarirsi le idee, protetto dal manager e confidente Jon Landau (Jeremy Strong). La qualità del portastudio però è scarsa: incide su audiocassette, e la camera da letto non è certo uno studio di registrazione. «Non si tratta di catturare suoni, ma idee» si giustifica Bruce, che in questo modo insolito registra Nebraska, il suo album più acustico e tormentato. Springsteen: Liberami dal nulla ruota proprio intorno a questo disco, l’opera con cui Bruce esorcizza non soltanto i suoi demoni, ma quelli dell’America intera: un paese di colletti blu in cerca di salvezza, dove la classe lavoratrice vede sfumare sistematicamente le proprie ambizioni. Del resto, Springsteen è sempre stato il cantore della working class, l’America degli ultimi, relegata in province desolanti e dimenticate; un contesto che lui stesso non ha mai rinnegato, nonostante il successo.

È qui che Scott Cooper dà il meglio di sé. Regista commerciale con ambizioni d’autore, Cooper mette in scena la dualità dell’artista, alle prese sia con le difficoltà della creazione (e i risvolti tecnici dell’incisione su cassetta) sia con gli impulsi della vita privata. Bruce comincia a frequentare Faye Romano (Odessa Young), sorella di un suo vecchio compagno di scuola, e nel rapporto tra i due – a cui si aggiunge la figlioletta di lei – c’è una tenerezza che ricorda i brevi momenti di felicità di Drive o Come un tuono. Purtroppo, il peso dell’eredità paterna torna a farsi sentire, e spinge il Boss ad autosabotarsi, come capita spesso con i traumi infantili. In tal senso, la seconda parte è quella più convenzionale, costretta a pagare pegno ai codici del biopic: c’è la scena in cui Springsteen incide Born in the U.S.A., e Landau fa la faccia compiaciuta perché ha capito che stanno scrivendo la Storia; ci sono le intemperanze del genio e la discesa nel gorgo della depressione, fino alla rinascita umana e musicale. L’unica eccezione allo schema – e qui bisogna riconoscere al film una certa onestà – è la non completa riconciliazione con gli affetti, al contrario di quanto avviene altrove.

Il risultato è comunque un solido film concepito per gli Oscar, dove brillano soprattutto le interpretazioni di Jeremy Allen White (alla sua consacrazione definitiva) e Jeremy Strong, che si conferma un attore di gran classe. Allo stesso tempo, è anche un film che ravvisa il più ampio humus culturale in cui si è sviluppata la musica di Springsteen, tra i racconti di Flannery O’Connor (che hanno ispirato l’album The River) e capolavori del cinema americano come La morte corre sul fiume e La rabbia giovane. D’altronde, l’heartland rock del Boss è inscindibile dalle opere che hanno raccontato il ventre nascosto dell’America, la sua disperazione e i suoi tentativi di rivalsa.

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