La lettera scarlatta a trent’anni di distanza continua a essere un oggetto davvero misterioso della settima arte. Tratto dal celeberrimo romanzo di Nathaniel Hawthorne, il film di Roland Joffé si proponeva di sbancare i botteghini di mezzo mondo e trionfare all’Academy. Ad oggi, è quasi sempre ricordato come uno dei flop più assurdi degli anni ‘90. Un’opinione che forse, a tanti anni di distanza, andrebbe modificata o quantomeno parzialmente rivista.
Per La lettera scarlatta Hollywood fece le cose in grande. Mise sul piatto un budget da 50 milioni di dollari ma soprattutto, arruolò i due divi di punta di quel momento: Demi Moore e Gary Oldman. Non era la prima volta che il romanzo di Hawthorne veniva portato sul grande schermo, quella in realtà sarebbe stata la quinta, dopo i tentativi di Victor Sjöström, Robert Vignola e soprattutto di Wim Wenders, ognuno con il suo stile, ma Joffé, reduce dagli apprezzatissimi Urla del silenzio e Mission, pareva la scelta giusta per cogliere un successo che pareggiasse o quantomeno arrivasse vicino a ciò altri avevano raccolto con film storici e period drama.
La sceneggiatura di Douglas Day Stewart forse fu il vero tallone d’Achille, dal momento che si staccò notevolmente dal romanzo originale, in particolare da metà in poi, togliendo con ogni probabilità gran parte della complessità dei significati che Hawthorne aveva originariamente deciso di analizzare. Girato quasi tutto nella vastità dei meravigliosi spazi della British Columbia, La lettera scarlatta parlava di un adulterio, avvenuto nel 1667 in Massachusetts, all’epoca il centro delle colonie puritane provenienti dall’Inghilterra, dove erano sempre più netti i contrasti con le tribù algonchine della zona. Qui incontriamo Hester (Demi Moore), una giovane colonna, sposata con il ben più anziano Roger (Robert Duvall), dato per disperso o ucciso per mano dei nativi.
Una delle figure più prominenti all’interno di quella comunità chiusa è il reverendo Arthur Dimmesdale (Gary Oldman), che dal suo pulpito, non fa altro che invocare obbedienza ai comandamenti, virtù e la sacralità di quella comunità. Come noto, la passione tra i due nel romanzo originale era la metafora attraverso cui Hawthorne parlava del bigottismo insito nella società americana, con quell’adulterio che costava la famosa lettera scarlatta a Hester e un clima di terrore e ghettizzazione costanti. Decisa a non rivelare il nome del suo amante per proteggerlo, Hester doveva subire il ritorno dal mondo dei morti, per così dire, del marito. Sarebbe stato l’inizio per la donna di un’agonia psicologica, aggravata dall’essere rimasta incinta e aveva partorito quella che era, a tutti gli effetti, una figlia bastarda per la comunità. C’erano tutte le carte in regola perché La lettera scarlatta diventasse un grandissimo film, invece si rivelò un flop allucinante. Ma soprattutto da allora domina le classifiche per quello che riguarda i peggiori adattamenti della storia del cinema e i peggiori film in generale. La verità? Un una condanna a dir poco eccessiva.

Partiamo da un presupposto: La lettera scarlatta esce all’interno di un decennio in cui grazie a registi come Martin Scorsese, Michael Mann, James Ivory e Stephen Frears, il film storico sta ricominciando a vivere un grande momento. Ma soprattutto, sono sempre più frequenti e di gran caratura gli adattamenti di alcuni dei titoli più importanti della letteratura romantica, seguendo l’esempio di quel Luchino Visconti, che tanti anni prima con Il Gattopardo, aveva sì fatto fallire la Titanus, ma creato anche un capolavoro riconosciuto da tutti. La lettera scarlatta dalla sua ha sicuramente una regia efficace, maestranze di grande livello e una bellissima fotografia, ciò che manca forse in realtà è una sceneggiatura che sappia mediare tra la necessità di essere fedeli all’opera originale a livello semantico, e l’urgenza di creare del materiale adatto ad una trasposizione cinematografica moderna. Questione di toni, questioni di sensibilità, ma anche così, il Razzie Awards e tutto il resto che fu scagliato addosso al film, appare onestamente fuori luogo.
Robert Duvalle in particolare, è autore di una performance di grandissima caratura, il suo Roger è la perfetta esemplificazione del patriarcato, quello vero, della dittatura maschile sul corpo e lo spirito femminili. Ipocrita, sadico, violento, insegue una volontà di vendetta tanto folle e sconsiderata, da deformarsi in una visione della donna come oggetto privato. Certo, dopo trent’anni bisogna ammettere che il film ha diversi momenti poco ispirati, e la chimica tra Gary Oldman e Demi Moore non sempre è quella giusta. Ma anche così, questo film, pur modernizzando per molti aspetti il testo originale, riesci a darci una perfetta immagine di quanto fosse terribile la vita per una donna nella società puritana dell’epoca. Collegandosi senza neanche troppi ripensamenti alla tragica vicenda di Salem (anch’essa oggetto di trasposizione cinematografica l’anno dopo con La seduzione del male), il film ha molti momenti forti, disturbanti, duri.
Viene da pensare che se fosse uscito oggi, La lettera scarlatta sarebbe stato in realtà abbastanza ben accolto dalla critica, la stessa che ha osannato un filmetto pretenzioso sullo stesso tema come Women Talking. All’epoca con ogni probabilità se la doveva vedere con opere cinematografiche molto più strutturate e meglio congegnate, per cui apparve con ogni probabilità peggiore di quello che era. Non è un caso infatti che Gary ancora oggi lo indichi come uno dei lavori di cui più orgoglioso, e tale discrepanza di pareri aiuta a farci comprendere come una volta, forse l’asticella cinematografica fosse veramente molto più alta, come pochi giorni fa ha ricordato Ridley Scott.
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