C’è una linea d’ombra che separa l’infanzia dalla vita adulta, ed è proprio su quel confine che si combatte la battaglia di IT. Nel romanzo di Stephen King – come in altre opere dello scrittore americano – bambini e adulti sono divisi da un’alterità insanabile, che impedisce loro di comunicare: messi di fronte all’orrore, insomma, i bambini sono fondamentalmente soli. Persino quando i membri del Club dei Perdenti diventano adulti, la riuscita della missione è condizionata dal ritorno all’infanzia e alle sue memorie perdute; inoltre, le loro gesta rimangono isolate, nessun altro ha coscienza di cosa stia accadendo. Dal canto suo, IT: Welcome to Derry cambia le carte in tavola per adeguarsi alle esigenze della serialità, e inseguire quei modelli della concorrenza (su tutti Stranger Things) che hanno segnato l’immaginario collettivo recente. IT non ne avrebbe certo bisogno, essendo già tanto popolare di per sé, nonché precursore dei modelli sopracitati; eppure, la politica della Warner Bros. cerca sempre di cavalcare il successo dei suoi blockbuster cinematografici, com’è già accaduto con Dune: The Sisterhood e The Penguin, rispettivamente un prequel di Dune e uno spin-off di The Batman. Anche Welcome to Derry è un prequel, ma prende tutti gli abbagli che spesso caratterizzano queste iniziative, compreso l’eccessivo ricorso alla retro continuity.
Per realizzare la serie, Warner e HBO hanno riunito la stessa squadra dei film, o almeno parte di essa: il regista e produttore Andy Muschietti, la produttrice Barbara Muschietti e lo sceneggiatore Jason Fuchs, anche showrunner con Brad Caleb Kane. L’idea di base è quella più ovvia, in termini di ambientazione. La storia si svolge infatti nel 1962, con 27 anni di anticipo rispetto agli eventi di IT: Capitolo 1, durante il precedente risveglio di Pennywise: è in questo periodo che il Maggiore Leroy Hanlon (Jovan Adepo) si trasferisce a Derry insieme al Capitano Pauly Russo (Rudy Mancuso), entrambi in forze all’aviazione. Il loro compito è supportare un’operazione top secret nei dintorni della città, guidata dal Generale Shaw (James Remar). Sul posto arrivano anche Charlotte (Taylour Paige) e Will (Blake Cameron James), moglie e figlio di Leroy.
Nel frattempo, Derry è funestata da misteriose sparizioni di bambini. Uno di essi è Matty Clements (Miles Ekhardt), sulla cui scomparsa comincia a indagare l’amica Lilly Bainbridge (Clara Stack), emarginata dai compagni di scuola dopo un grave trauma. Anche Ronnie Grogan (Amanda Christine), figlia del proiezionista Hank Grogan (Stephen Rider), viene coinvolta nella ricerca: saranno proprio loro, insieme ad altri coetanei, a stuzzicare gli appetiti di Pennywise (Bill Skarsgård).

Nei primi cinque episodi (su otto complessivi) che ho potuto vedere in anteprima, è chiaro l’intento di costruire un nuovo Club dei Perdenti, o quantomeno di evocarlo attraverso i giovani protagonisti. In effetti, Welcome to Derry inanella citazioni e rimandi che faranno drizzare le orecchie ai fan di Stephen King, coerentemente con quell’idea di universo condiviso che attraversa le sue opere: per intenderci, viene citata l’immancabile prigione di Shawshank, e inoltre tra i personaggi principali compare Dick Halloran (Chris Chalk), futuro capo chef dell’Overlook Hotel in Shining. Viene quasi il dubbio che Muschietti e Fuchs abbiano voluto prendere esempio da Castle Rock, la serie Hulu che intrecciava diverse storie e personaggi kinghiani.
Il fulcro resta però la minaccia di Pennywise, attorno a cui si sviluppa un’inattesa trama militare, con forti interventi di retro continuity. Il limite principale di Welcome to Derry è proprio questo: ha la pretesa di espandere la vicenda in nuove direzioni, ma finisce solo per banalizzarla. Il coinvolgimento dell’esercito cambia tutta la prospettiva, annacquando il clima disturbante di Derry con l’ufficialità di una presenza “istituzionale”. Uno degli aspetti più tetri di IT era l’essenziale riserbo dell’orrore: Pennywise agiva ciclicamente indisturbato, e le sue gesta venivano archiviate come gravi incidenti o delitti umani; la consapevolezza della sua presenza non è mai stata diffusa, bensì concentrata in pochi “eletti” (di fatto, il solo Club dei Perdenti). La serie tenta invece un salto verso una dimensione – relativamente – collettiva, con le solite indagini dei militari sull’ignoto, come in Stranger Things. L’orizzonte diviene quindi più adulto: non sono più soltanto i bambini a vedersela con il mostro, e quel senso di isolamento che caratterizza storicamente IT (insieme al ruolo di Pennywise come guardiano tra l’infanzia e l’età adulta) viene a mancare.
Un discorso simile riguarda anche i nativi americani, la cui inclusione era doverosa: sono stati loro i primi a combattere la creatura, e nel libro c’è tutta una mitologia che il secondo film si limitava solo ad accennare. Welcome to Derry, però, riesce a banalizzare anche questo, inserendo elementi fantasy di bassa lega che non rendono giustizia alla mitologia kinghiana: l’impressione è che gli autori cerchino di razionalizzare il mostro, ingabbiandolo in regole meno sfumate ed enigmatiche rispetto alla creazione originale. È come se si sforzassero di dare forma a qualcosa d’indefinibile, dirottandolo entro confini più scontati e familiari.

Del resto, la serie non è opera di Stephen King, ma dei suoi estimatori: una sorta di fan fiction approvata dall’alto, come molti legacy sequel usciti al cinema negli ultimi anni. Senza la guida del romanzo, Muschietti può dare libero sfogo alla sua idea di IT, portando all’estremo alcune idee già viste nei film. Di Pennywise vediamo soprattutto le manifestazioni orrorifiche, le apparizioni mostruose che impone alle sue vittime, ma senza le sue entrate di scena finali; si perde così la sua proverbiale teatralità, dato che la serie è costretta a centellinare (e rimandare) l’effettiva comparsa del clown. In cambio, Muschietti punta molto sul body horror, inanellando ibridazioni grottesche e parossismi mutanti che – pur senza negare qualche buona trovata – si affidano troppo alla CGI. Purtroppo le sue ambizioni si scontrano con alcuni limiti tecnici, evidenti soprattutto nelle scene con il green screen e in certe creature non proprio impeccabili: non sempre il piccolo schermo può reggere una sfida da blockbuster, come sappiamo bene.
L’assenza di una base solida è avvertibile anche nei personaggi, la cui scrittura è poco incisiva, e talvolta scivola in cliché abusati o caratterizzazioni monolitiche. L’unica in grado di emergere è Lilly, almeno in principio: il suo precedente ricovero in un ospedale psichiatrico la rende particolarmente sensibile alle manifestazioni di Pennywise, proprio a causa del suo passato e della sua immagine pubblica. Gli autori però non hanno il coraggio di proseguire in quella direzione, quantomeno nei primi cinque episodi. Il rischio di provare indifferenza per i personaggi è alto, al contrario di quanto succedeva nella storia originale, dove tutti si identificavano con il proprio “perdente” favorito.
In tal modo, il prequel è solo un esercizio (non richiesto) finalizzato a riempire le lacune, peraltro senza vera tensione: sappiamo già che Pennywise non sarà ancora sconfitto, che alcuni personaggi sopravvivranno e che l’orrore non diverrà di dominio pubblico, né sarà usato come arma. Magari la tensione aumenterà negli ultimi tre episodi, ma Welcome to Derry avrà sempre dei vincoli che non potrà superare.
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