Il Dracula di Luc Besson emerge dalle nebbie come il Demeter, la nave che trasportava il vampiro nel romanzo di Bram Stoker: è il relitto di un tempo passato e di un luogo lontano, una nave fantasma che naviga a stento, imbarca acqua, eppure resta a galla. C’è evidentemente qualcosa di irresistibile nel libro di Stoker – come nel folclore vampiresco – che spinge tanti cineasti a offrirne una propria rilettura, calibrata sulla sensibilità di ognuno. Contando anche il Nosferatu di Robert Eggers e il Dracula di Radu Jude, sono già tre film nel giro di pochi mesi, senza dimenticare gli abbastanza recenti (e meno ambiziosi) The Last Voyage of the Demeter e Renfield.
Dal canto suo, è palese che Besson abbia in mente il capolavoro di Coppola, e lo si intuisce fin dal prologo: nella Transilvania del XV Secolo, il principe Vlad Dracula (Caleb Landry Jones) combatte gli invasori dell’Impero Ottomano, ma la morte dell’amata Elisabeta (Zoë Bleu) lo spinge a rinnegare Dio. Condannato a vivere in eterno, Dracula è perseguitato da un’inesauribile sete di sangue, e trascorre i secoli alla ricerca della reincarnazione di Elisabeta. La ritrova nella Parigi dell’Ottocento: si chiama Mina Murray, e sta per sposare l’agente immobiliare Jonathan Harker (Ewens Abid), che si reca al castello di Dracula per alcuni affari. Riconosciuta Elisabeta in un ritratto di Mina, il vampiro imprigiona Jonathan e si mette in viaggio, non prima di aver ritrovato le forze con un succulento banchetto a base di monache.
Se tale dettaglio vi giunge nuovo, il motivo è che Besson rielabora la storia originale a modo proprio, rimescolando personaggi, innestando episodi e ampliando il ruolo di Dracula. C’è tutto un flashback in cui quest’ultimo ricorda le sue peregrinazioni tra Europa e Medio Oriente, in cerca di un’essenza che gli permetta di soggiogare la volontà del prossimo, con scene che sfiorano il musical; mentre la suddetta incursione nel convento è una parentesi folle, divertita, quasi da teatro-danza. Si vede che c’è dietro uno sguardo europeo, più demistificante e votato agli impulsi della carne; magari anche un po’ kitsch? Forse, ma non si può negare che Besson trovi qualche spiraglio di originalità in una vicenda ormai inflazionata. Il limite, se mai, è quando cerca di misurarsi con Bram Stoker’s Dracula sul piano dello stile: certi dettagli, come l’armatura del principe all’inizio, paiono maggiormente posticci. Del resto, è un film che unisce momenti lirici a trovate dal gusto discutibile, come i gargoyle di pietra in CGI che popolano il castello. Servitori muti del vampiro, questi “minion” gotici sono troppo cartooneschi per una storia del genere, e compiacciono soprattutto un pubblico abituato ai colossal hollywoodiani. Alla fine, però, Besson piazza una rivelazione tragica che stravolge l’intera prospettiva su di loro: il colpo di coda dell’autore.
In effetti, Dracula: L’amore perduto è frutto di spinte contrastanti, come spesso accade nei blockbuster del regista francese; da un lato ci sono le ambizioni artistiche, e dall’altro le esigenze dello spettacolo, evidenti nel finale ricco di azione (che – di nuovo – stona un po’ rispetto al resto). L’esito è magmatico, imperfetto, ma non privo di fascino. Besson ci mette anche un filo d’ironia, pur senza raggiungere – giustamente – i vertici farseschi dei suoi film più scanzonati. Si avverte però il desiderio di contaminare i toni, e impadronirsi di una storia che ogni regista ama fare propria. Invece del Professor Van Helsing, qui abbiamo un prete sornione interpretato da Christoph Waltz, mentre i personaggi di Lucy e Renfield si fondono in Maria, nobildonna italiana trasformata in vampiro: un ruolo in cui Matilda De Angelis ha l’aria di divertirsi un mondo.
Ovviamente le luci della ribalta sono tutte per Caleb Landry Jones, divenuto il pupillo di Besson dopo Dogman. È stato lui a valorizzarne in pieno il talento, dopo anni di ruoli marginali o stereotipati nel cinema americano: Jones lo ripaga con un Dracula enigmatico e dolente, sarcastico e raffinatissimo, capace di muoversi al confine tra dimensione sensibile e sovrasensibile. Antieroe di un mondo in rovina, ultimo paladino dei tempi antichi, è condannato al limbo che separa umano e post-umano. La sua capacità di incarnare entrambe le nature è il cuore stesso del film.
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