Quando Daniel Day-Lewis torna sullo schermo, il cinema si ferma a guardare. E con lui il pubblico.
Dopo otto anni lontano dal grande schermo, l’attore britannico riappare con Anemone. Un titolo che sembra già suggerire il cuore del film: la fragilità dei rapporti e la forza di ricominciare. Un progetto profondamente personale, scritto insieme al figlio Ronan Day-Lewis, che qui firma anche la regia.
La pellicola, presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma (dove ha vinto il premio Miglior Opera Prima ad Alice nella Città) e attesa nelle sale italiane dal 6 novembre, è ambientata nel nord dell’Inghilterra, tra paesaggi di brughiera e case isolate. Racconta la storia di due fratelli separati da un passato doloroso e costretti a ritrovarsi, in un viaggio di riconciliazione e memoria. Accanto a Day-Lewis, nel cast figurano Sean Bean, Samantha Morton, Samuel Bottomley e Safia Oakley-Green, in un dramma familiare che mescola introspezione, malinconia e quella tensione sottile che solo il silenzio può creare.
Quando nel 2017 annunciò di voler abbandonare la recitazione, dopo Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson, Daniel Day-Lewis lo fece con la riservatezza che lo ha sempre contraddistinto.
Non aveva mai smesso di amare il suo lavoro: era piuttosto “una paura, una forma di ansia legata al mondo che circonda il cinema” ad averlo spinto lontano dai set.
Anemone gli ha permesso di sentire di nuovo quel richiamo, e in suo figlio ha trovato la scintilla per rimettersi in gioco.
È difficile non leggere questo film come una lettera intergenerazionale, un atto d’amore tra padre e figlio, tra un mito che torna e un regista che nasce. Da questo punto di vista, il loro dialogo artistico è forse la vera anima del film.
Parlare di Daniel Day-Lewis significa parlare di un attore che ha trasformato il mestiere in un rituale.
Tre Oscar come miglior attore protagonista (Il mio piede sinistro, Il petroliere, Lincoln) e una carriera costruita su pochissimi, intensissimi film.
Day-Lewis non interpreta: vive. Si immerge completamente nei suoi personaggi, fino a confondere vita e ruolo.
Per Il mio piede sinistro si esercitò a scrivere e dipingere con il piede, proprio come Christy Brown, restando sulla sedia a rotelle per tutta la lavorazione; per Il petroliere si isolò nel deserto del Texas e rimase nel personaggio per mesi; per Lincoln parlava sempre con l’accento ottocentesco anche fuori dal set, chiedendo di essere chiamato “Mr. President”.
La sua dedizione assoluta è insieme un dono e una sfida. Condividere il set con un attore che si abbandona così completamente al personaggio può essere difficile, quasi destabilizzante: Day-Lewis non interpreta Abraham Lincoln o Daniel Plainview, diventa loro. Ma quando poi il film arriva sullo schermo, quella stessa intensità, quella disciplina quasi ascetica, si trasforma in qualcosa di irripetibile.
È un artigiano dell’identità, un attore che non recita per intrattenere, ma per comprendere. E, forse, per espiare.

L’attesa attorno ad Anemone non riguarda solo il ritorno di Day-Lewis, ma anche la promessa di un cinema diverso: intimo, scarno, viscerale.
Dalle prime recensioni emerge un film che si affida più al non detto che al gesto, più al volto che alla parola. Un dramma che vive di piccoli dettagli (un rumore di passi, una mano che trema, la distanza tra due corpi) e che lascia al pubblico il compito di colmare i vuoti.
In questo senso, Anemone sembra raccogliere l’eredità dei grandi film dell’attore ma con una luce nuova: quella del ritorno, della consapevolezza di chi sa che ogni storia potrebbe essere l’ultima.
In un’epoca in cui le star passano da un set all’altro senza sosta e le piattaforme bruciano tutto in un weekend, Daniel Day-Lewis resta l’eccezione assoluta: un attore che ha sempre detto “no” più spesso che “sì”, che sceglie i ruoli come un monaco sceglie il silenzio.
Forse per questo Anemone non è solo un film, ma un evento emotivo, un gesto di ritorno e di riconciliazione con il cinema stesso.
E se davvero dovesse essere l’ultima volta che lo vediamo sullo schermo, sarà la conferma di ciò che sapevamo già: che Daniel Day-Lewis non interpreta personaggi, li abita. E che ogni suo ritorno è, in fondo, un modo per ricordarci quanto il cinema possa ancora essere vivo.