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Da Hitchcock a Netflix: come la storia di Ed Gein ha plasmato l’orrore sullo schermo

La macabra eredità di Ed Gein arriva su Netflix, ma il suo nome ossessiona cinema e tv da decenni.

Pubblicato il 05 ottobre 2025 di Filippo Magnifico

Negli ultimi anni il true crime ha conquistato uno spazio centrale nella cultura popolare. Non è più un genere di nicchia, ma un fenomeno che spazia dai podcast alle produzioni cinematografiche, fino alle serie di punta sulle piattaforme di streaming. A spiegarne il successo sembrano contribuire più fattori: certamente c’è una curiosità morbosa verso l’orrore, ma anche il desiderio di comprenderlo, di analizzarlo, di renderlo narrabile. Forse il true crime funziona proprio perché tiene insieme queste spinte contrastanti, offrendo al pubblico tanto la possibilità di voyeurismo quanto l’illusione di controllo. Guardare il male da vicino sembra offrirci un senso di controllo, anche se illusorio.

Ma questa nuova ossessione è anche figlia dei nostri tempi. I social network hanno alimentato una trasparenza costante, una disponibilità infinita di informazioni e dettagli sulle vite altrui. Viviamo in un’epoca in cui sapere tutto di tutti è diventata la norma, e il nostro “desiderio di sbirciare” si è trasformato in un appetito insaziabile. In questo senso, il successo del true crime potrebbe essere letto come un sintomo: la “fame di realtà” che si spinge fino al morboso.

Eppure, per quanto inquietante possa sembrare, il fascino del male non è una scoperta recente. È un’attrazione che percorre la nostra cultura da secoli, dai racconti gotici di Edgar Allan Poe fino alle pagine di Truman Capote, che con A sangue freddo inaugurò il true crime letterario moderno. Il cinema ha continuato su questa scia, da Fritz Lang con M – Il mostro di Düsseldorf fino alle visioni disturbanti di registi come Hitchcock o Tobe Hooper. L’orrore, dunque, non è solo un genere: è una lente privilegiata attraverso cui ci misuriamo con i nostri tabù, con le zone d’ombra della società e della psiche.

È in questo panorama che la figura di Ed Gein continua ad avere un peso enorme, non tanto per la cronaca dei suoi crimini, quanto per l’impronta che ha lasciato nell’immaginario collettivo.

La storia di Ed Gein

Edward Theodore Gein nacque nel 1906 in Wisconsin e trascorse gran parte della vita nella fattoria di famiglia, isolata e soffocante. Cresciuto sotto l’influenza di una madre religiosa e oppressiva, e con un padre violento e alcolizzato, sviluppò un rapporto distorto con il mondo femminile e un legame morboso con la madre. Dopo la sua morte, Gein rimase solo e iniziò a scivolare in una spirale sempre più oscura.

Nel 1957 la polizia scoprì nel suo casolare un orrore inimmaginabile: oggetti domestici ricavati da resti umani, teschi e ossa, maschere di pelle. Gein confessò due omicidi (Mary Hogan e Bernice Worden) ma ammise anche di aver profanato diverse tombe per procurarsi i corpi utili ai suoi scopi, in grado di assecondare la sua fantasia perversa. Arrestato e dichiarato mentalmente instabile, trascorse il resto della sua vita in istituti psichiatrici fino alla morte nel 1984.

La sua figura è spesso definita quella di un serial killer, ma in realtà il numero limitato di omicidi accertati non corrisponde pienamente a questa etichetta. Gein è rimasto impresso non tanto per la quantità delle sue vittime, quanto per la qualità simbolica e disturbante delle sue azioni: l’uso del corpo come materia prima per costruire oggetti e “indossare identità” ha generato un immaginario che il cinema e la televisione hanno assorbito e trasformato.

Ed è qui che si innesta qualcosa di profondamente affascinante: da secoli la nostra cultura ha fatto del culto dei morti un ponte verso l’ignoto, esponendo ossa, reliquie, resti umani per attribuire loro un valore spirituale o magico. Ma quando la stessa dinamica si ripresenta non in una chiesa o in un museo, bensì nella casa di un uomo comune, nel cuore della provincia americana, allora tutto cambia. Non è più un simbolo condiviso, è un orrore privato, vicino, quasi domestico. E proprio questa prossimità rende la storia di Gein tanto disturbante quanto irresistibilmente attraente.

Da Hitchcock a Tobe Hooper

Se la cronaca di Gein lo avrebbe potuto relegare a un caso di provincia, il cinema e la cultura pop ne hanno fatto un’icona. L’eco delle sue azioni si ritrova in alcuni dei film più influenti della storia dell’horror.

In Psycho di Alfred Hitchcock, il personaggio di Norman Bates deve molto a Gein: l’ossessione per la madre morta, la casa isolata, la doppia identità che esplode nel momento del delitto. Robert Bloch, autore del romanzo, ammise che il contesto di cronaca del Midwest lo aveva influenzato. Hitchcock, portando la storia sul grande schermo, contribuì a scolpire la figura del “mostro della porta accanto”. Ma non è solo la psicologia di Bates a ricordare Gein: anche la casa gotica che domina la collina, con la madre “conservata” in una stanza come una reliquia macabra, richiama l’ossessione di Gein per il corpo materno e per gli spazi domestici trasformati in mausoleo. Come nella sua fattoria, la dimora di Norman non è un semplice scenario, ma il riflesso di una mente prigioniera del passato, un luogo in cui l’intimità diventa prigione e il culto dei morti si fa orrore quotidiano.

Ancora più evidente è il legame con Non aprite quella porta di Tobe Hooper. Il Leatherface che si nasconde dietro una maschera di pelle umana e vive in una fattoria remota è un riflesso diretto dell’immaginario legato a Gein. Anche se la storia del film non ha nulla a che fare con i fatti reali (sebbene il film spinga a pensare il contrario), l’ispirazione è innegabile. In più, è la casa stessa a parlare: in Non aprite quella porta l’arredamento fatto di ossa e resti organici trasforma lo spazio domestico in un’estensione del mostro, proprio come accadeva nella fattoria di Gein, dove la polizia trovò lampade, sedie e utensili costruiti con parti umane. Non è solo scenografia, ma metafora di un’America che negli anni Settanta si sentiva allo sbando, un popolo che vedeva i propri valori tradizionali contaminati e resi irriconoscibili, proprio come gli oggetti di quella fattoria dell’orrore.

Ne Il silenzio degli innocenti, il personaggio di Buffalo Bill riprende un altro aspetto cruciale: la creazione di un “abito di pelle femminile”. Qui Gein diventa uno dei tanti ingredienti che compongono un assassino di pura invenzione, ma la sua impronta è visibile. Allo stesso tempo, Bill è una fusione di più figure criminali: da Ted Bundy, che attirava le sue vittime con stratagemmi apparentemente innocui, a Gary Heidnik, che le teneva prigioniere nel seminterrato. Il risultato è un mostro “ibrido”, costruito con frammenti di realtà, in cui Gein fornisce però l’elemento più disturbante: la pelle come identità.

Esistono anche film meno noti che lo rappresentano più da vicino. Deranged, uscito nel 1974, è una sorta di cronaca semi-documentaristica della sua vita, mentre In the Light of the Moon, conosciuto anche semplicemente come Ed Gein, porta il suo nome sullo schermo nel 2000. Persino serie più recenti come American Horror Story: Asylum hanno ripreso dettagli della sua vicenda, mescolandoli con altri riferimenti horror.

La nuova serie Netflix

Il 3 ottobre su Netflix debutta Monster: La storia di Ed Gein, la terza stagione dell’antologia creata da Ryan Murphy e Ian Brennan. Charlie Hunnam interpreta Gein in quello che si presenta come il primo grande progetto internazionale dedicato interamente a questa figura così enigmatica e terrificante.

La promozione lascia intendere che la serie non si limiterà al sangue e al macabro: punta a penetrare lo strato psicologico e culturale dietro i crimini. L’isolamento del Midwest, le convinzioni religiose oppressive, il legame ossessivo con la madre, queste sembrano essere le coordinate narrative su cui la serie vuole lavorare. Piuttosto che esibire il mostro, l’obiettivo sembra essere comprendere come un “mostro” venga costruito, e come la sua eredità si radichi nell’immaginario collettivo.

Perché, in fondo, ciò che rende Ed Gein ancora centrale non è solo il suo percorso criminale. Le sue azioni hanno lasciato in eredità un repertorio di immagini perturbanti: la casa isolata che diventa prigione, le maschere che cancellano l’identità, il legame con la madre che si trasforma in incubo, il corpo ridotto a oggetto. È un linguaggio visivo che da decenni struttura l’horror e continua a parlare di noi: delle nostre paure, dei nostri tabù, del male che la cultura tiene nascosto sotto la pelle.

Gein non lasciò dietro di sé un lungo elenco di vittime, ma un’eredità simbolica potentissima. È il volto della follia che si nasconde dietro casa nostra, la dimostrazione che il mostruoso non arriva sempre da lontano, ma germoglia nell’ordinario fino a trasformarlo in incubo.