La scelta di un’epigrafe non è mai casuale, e Amata non fa differenza: il film si apre infatti con una celebre frase di Waslawa Szymborska – “Alla nascita di un bimbo il mondo non è mai pronto” – che introduce il tema alla base della storia (e dell’omonimo romanzo di Ilaria Bernardini, anche sceneggiatrice). Del resto, chi è mai realmente pronto per la nascita di un bambino? Probabilmente questa domanda – “Sono pronta/o? È il momento giusto?” – è balenata in testa a ogni futuro genitore, o a chiunque abbia preso in considerazione l’idea; e il mondo stesso, con tutti i suoi travagli, raramente può accogliere i nuovi nascituri come meriterebbero.
Tale conflitto fra desiderio e senso d’inadeguatezza è centrale in Amata, a partire dalle storie parallele di Nunzia (Tecla Insolia) e Maddalena (Miriam Leone). La prima è una studentessa siciliana fuori sede: vive a Roma con due coinquiline, e rimane incinta di un ragazzo conosciuto in discoteca, nonostante abbiano preso le dovute precauzioni. Avendo scoperto la gravidanza in ritardo, Nunzia non può interromperla, e prende in affitto una stanza nell’appartamento di un’anziana signora (Betty Pedrazzi) per portarla a termine in segreto. Maddalena è invece un’ingegnera edile sposata con un noto pianista, Luca (Stefano Accorsi). Da tempo cercano di avere un bambino, ma Maddalena ha già subìto degli aborti spontanei, e il suo corpo non può sopportarne un altro.
Con queste premesse, viene istintivo fare un collegamento tra le due storie, e in effetti l’intreccio è tutt’altro che nuovo. Non conta però la prevedibilità della storia, quanto l’esigenza di raccontarla: in un paese dove l’interruzione volontaria di gravidanza è sempre più osteggiata, e le culle per la vita sono giusto una sessantina, la maternità resta un tema cruciale. Il merito di Amata, però, è di spostare la riflessione sul piano concreto. Mentre la retorica conservatrice si riempie la bocca di discorsi evanescenti, idealizzando il concetto di “madre” e quello di “famiglia”, Bernardini riporta al centro le implicazioni emotive, psicologiche e materiali della genitorialità, che sia desiderata o inattesa. Per Nunzia, essa è un ostacolo al suo percorso di realizzazione, aggravato da un contesto che la fa sentire sola: anche le rassicurazioni del personale medico portano più danni che benefici, essendo così lontane dall’esperienza interiore ed esteriore della ragazza. Ne deriva il paradosso di una cultura che vuole le madri come madonne, ma nei fatti non le aiuta per davvero, le lascia isolate, e non si prodiga per capirne le reali esigenze (in termini sia di assistenza psicologica sia di supporto materiale, indipendentemente dalla scelta di portare avanti la gravidanza o meno).
Così, articolando vari aspetti della maternità, il film affronta complicazioni di segno opposto, dove la vicenda di Maddalena fa da contraltare a quella di Nunzia. Se quest’ultima è rimasta incinta con facilità e senza volerlo, Maddalena un bambino lo desidera da anni, ma si sente tradita dal suo corpo: non fa che colpevolizzare sé stessa, mentre il marito piange in solitudine, preoccupato di mostrarsi forte. Emergono qui le molte aspettative che gravano sul corpo di una donna, l’idea che debba inevitabilmente dare un figlio al proprio compagno, alla società, al paese, e che in caso contrario non possa considerarsi realizzata. Bernardini è attenta a caratterizzare Maddalena al di fuori del rapporto coniugale (la vediamo impegnata diverse volte nel suo lavoro), eppure quel senso di incompiutezza resta dentro di lei, sia per un sincero desiderio di maternità sia per un’antica pressione sociale, indotta dall’esterno; d’altra parte, quante volte la famiglia tradizionale ci è stata propinata come unico modello possibile? Per fortuna, lei e Luca cominciano a riflettere su altre soluzioni, e infatti Amata offre anche uno sguardo dettagliato sui meccanismi dell’adozione, snodo cruciale della storia: è qui che entra in gioco Adele (Donatella Finocchiaro), che assiste la coppia e illustra la procedura per adottare un bambino, ovviamente delicatissima. Noi seguiamo entrambi i punti di vista, la madre accidentale e quella che aspira a diventarlo, come due rette parallele che non si incrociano mai; anche perché Amata chiaramente non è Juno, né come toni né come reazione al distacco, e punta alla verosimiglianza.
Elisa Amoruso sa bene di lavorare su una materia sensibile, ed è abile a sfruttare i silenzi come forma espressiva e riflessiva: l’impiego delle musiche si limita infatti alle fonti diegetiche, udite anche dai personaggi nella finzione (il pianoforte di Luca, i ritmi techno nella discoteca, la dolcissima Te lo leggo negli occhi di Dino – scritta da Sergio Endrigo e Sergio Bardotti – ascoltata da Nunzia in casa della signora). Ed è nel silenzio che sono immersi anche i dialoghi più intimi e arcigni, forse troppo enfatici, quando la scrittura prende il sopravvento con esiti un po’ artificiosi. Resta però una riflessione toccante – quanto schietta – sugli ostacoli e i dubbi della maternità, in un paese che sul corpo delle donne continua a combattere battaglie durissime.
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