Come sarebbero stati i tuoi genitori da adolescenti? Ti saresti trovato bene con loro? Saresti stato loro amico?
È da questa domanda, geniale nella sua semplicità, che nasce Ritorno al Futuro. Bob Gale la ebbe un giorno sfogliando l’annuario del liceo di suo padre: guardando quella foto sbiadita, si chiese che tipo di ragazzo fosse stato. E se lui e suo padre, coetanei, si sarebbero piaciuti. Da lì parte tutto. Una scintilla creativa che, insieme a Robert Zemeckis, avrebbe dato vita a uno dei film più amati della storia del cinema.
Peccato che all’epoca, a Hollywood, nessuno volesse saperne. Gli studios non capivano, tentennavano, dicevano “mah”. E poi c’era quella cosa lì: la madre che, ignara, si innamora del proprio figlio venuto dal futuro. Un’idea audace, che metteva a disagio molti produttori. Troppo rischiosa. Troppo diversa. Così il progetto fu rifiutato da più di 40 studios.
Fino a quando, finalmente, entrò in scena Steven Spielberg, non come regista, ma come produttore esecutivo. Fu lui a credere nel progetto, a difenderlo, a spingerlo in avanti con la forza di chi sa riconoscere un capolavoro prima ancora che esista. Ed è grazie a lui, e alla testardaggine di Gale e Zemeckis, che quella strana commedia di viaggi nel tempo con un ragazzo, uno scienziato e una DeLorean è diventata leggenda.
Ci sono film belli, film divertenti, e poi ci sono film scritti con una tale precisione che sembrano ingegneria narrativa. Ritorno al Futuro è questo. Ogni scena ha una funzione. Ogni battuta torna. Ogni dettaglio — anche quello che sembra buttato lì per ridere — si rivela fondamentale ore (o decenni) dopo.
Pensateci: l’orologio della torre, il parcheggio del Twin Pines Mall, il nome del sindaco, il contenitore del plutonio di Doc, il promemoria “Salviamo la torre dell’orologio”, il walkman, la chitarra. Tutto torna. Tutto serve. È un esempio da manuale su come si costruisce una sceneggiatura che viaggia nel tempo senza perdersi per strada. Con ritmo perfetto, ironia intelligente, e personaggi che entrano subito nel cuore.
E qui non si può non parlare del casting: Michael J. Fox è Marty McFly. Punto. Non solo perché ha la faccia giusta, il carisma giusto, la comicità giusta ma perché sa portare sulle spalle il peso di un film così ricco senza mai strafare. E pensate che inizialmente il ruolo era stato dato a Eric Stoltz: settimane di riprese buttate perché mancava “quella scintilla”. E avevano ragione. Quando Fox è arrivato sul set, il film è decollato.
E poi c’è Christopher Lloyd, che con il suo Doc Brown ha creato un personaggio leggendario, tra Einstein e Looney Tunes, ma con un’umanità che sorprende. I suoi occhi quando vede partire la DeLorean, il suo “Grande Giove!”, il suo entusiasmo per la scienza… È l’amico folle che tutti vorremmo avere.
Anche se, diciamoci la verità, i nostri genitori sarebbero stati parecchio preoccupati di vedere il loro figlio quindicenne andare in giro con uno scienziato solitario con un laboratorio pieno di orologi, esperimenti radioattivi e plutonio rubato…
A 40 anni dalla sua uscita, Ritorno al Futuro non è semplicemente un film che “resiste al tempo”: è un’opera che viaggia nel tempo con noi. Citato, parodiato, studiato, remixato. Ha dato vita a due sequel amatissimi, a fumetti, videogiochi, attrazioni nei parchi a tema, e persino a un musical di Broadway. Ma soprattutto, ha plasmato l’immaginario collettivo.
E ci ha insegnato una cosa fondamentale: che il futuro non è scritto. Si può cambiare. Si può migliorare. Dipende da noi.
Esiste forse insegnamento migliore di questo?
Quante volte sogniamo di tornare indietro nel tempo per cambiare una decisione, o solo per curiosare? Quel film ha insegnato a intere generazioni che il tempo è qualcosa con cui si può giocare, nella mente, nel cuore, nella fantasia.
E oggi, nel 2025, ci troviamo ancora a citare battute come “Strade? Dove andiamo noi non servono strade”, o a sognare l’hoverboard, o a pensare che una macchina del tempo nascosta in una DeLorean sia la cosa più figa mai concepita.
Perché Ritorno al Futuro non è solo un film riuscito: è una macchina del tempo emotiva, che ci riporta a un’epoca in cui tutto era possibile, a patto di crederci fino in fondo. Proprio come Zemeckis, Gale e Spielberg hanno fatto, quando nessuno ci credeva tranne loro.
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