Non tutti i blockbuster si confanno al trattamento seriale, e Jurassic Park è indicativo di come Hollywood preferisca inseguire le opportunità del merchandising piuttosto che una buona storia. Anche Jurassic World – La rinascita, nonostante i proclami di rinnovamento, finisce per cadere nei soliti meccanismi narrativi, da cui la saga non è mai riuscita a emanciparsi del tutto. Intendiamoci, la ripetitività è connaturata alla serialità, ma esistono territori in cui certe “variazioni sul tema” funzionano bene: soprattutto quando il franchise ruota attorno a misteri da risolvere (i grandi detective letterari), antagonisti da sconfiggere (gli eroi dei fumetti, gli agenti segreti) e/o MacGuffin da trovare (gli avventurieri della letteratura pulp). Ma nei film di Jurassic, se si esclude qualche modifica secondaria, tutto finisce sempre per ridursi alla stessa cosa, ovvero gente che scappa dai dinosauri. Al massimo, cambiano i dinosauri.
Per cavalcare il successo commerciale dell’ultima trilogia, Universal Pictures si è affidata allo sceneggiatore David Koepp (lo stesso dei primi due film), che ha confezionato una specie di soft reboot: nuovi protagonisti, stesso universo. Sono trascorsi cinque anni dagli eventi di Jurassic World – Il dominio, e i dinosauri stanno morendo, incapaci di adattarsi a un pianeta per loro inospitale. I superstiti popolano una fascia all’altezza dell’Equatore, dove il clima tropicale ricorda quello del Mesozoico. Ciononostante, le multinazionali continuano a vedere i dinosauri come una risorsa: l’azienda farmaceutica ParkerGenix sostiene infatti che il materiale genetico di tre giganteschi rettili (mosasauro, titanosauro e quetzalcoatlo) nasconda la chiave per una cura rivoluzionaria, in grado di salvare milioni di vite. Per recuperare i campioni di sangue necessari alla ricerca, Martin Krebs (Rupert Friend) assolda l’esperta di operazioni sotto copertura Zora Bennett (Scarlett Johansson), il paleontologo Henry Loomis (Jonathan Bailey) e il capitano Duncan Kincaid (Mahershala Ali), che mette a disposizione la sua barca e il suo equipaggio. La missione si complica quando i nostri eroi intercettano la richiesta di soccorso di Reuben Delgado (Manuel Garcia-Rulfo), che sta navigando lungo l’Equatore con la figlia minore Isabella (Audrina Miranda), la figlia maggiore Teresa (Luna Blaise) e il fidanzato di quest’ultima, Xavier Dobbs (David Iacono). Insieme, i due gruppi naufragano su un’isola abitata da dinosauri mutati, frutto dei vecchi esperimenti della InGen.
Sono proprio questi rettili ibridi a garantire carne fresca per il merchandising, e non è un caso che alcuni dinosauri siano stati creati in sede di concept design prima ancora di avere una sceneggiatura completa: ciò che conta, in una saga del genere, è vendere giocattoli. L’intuizione vincente di Universal e Amblin, se mai, è stata ingaggiare Gareth Edwards per la regia, che compensa in parte i limiti dell’operazione. Edwards è un cineasta peculiare, dotato di uno sguardo personalissimo sui blockbuster: ama raccontare i prodigi dell’immaginazione calati in uno scenario quotidiano, come parte integrante di un mondo che non li vede più come eccezionali. In tal senso, le potenzialità inespresse di Jurassic World – La rinascita sono racchiuse nella parte iniziale, quando un brachiosauro malato causa un ingorgo a New York City, e la sua presenza è un semplice fastidio oltre il finestrino; è qui che il film riesce davvero a raccontare una realtà alternativa, capace di sbalordirci in modi diversi rispetto all’originale. Perché, alla fine, il nucleo del problema è questo: a 31 anni dal primo Jurassic Park, non è più possibile meravigliarsi per un dinosauro sul grande schermo. Edwards è bravo, e ci va molto vicino nella deliziosa scena d’amore tra titanosauri, dove recupera il piacere antispecista di ribaltare la percezione dei “mostri” (pensiamo al finale di Monsters e all’incontro fra i due Muto in Godzilla: l’affetto non è prerogativa umana). Si tratta però di un momento episodico, come la sequenza con il tirannosauro nel fiume o l’attacco dello pterodattilo in profondità di campo. Edwards ce la mette tutta per costruire qualche scena originale, gioca a nascondere i dinosauri alla vista del pubblico, ma il contesto in cui lavora non lo favorisce.
Ad appesantire il tutto c’è la sceneggiatura di Koepp, che non riesce a spingere il franchise verso nuovi orizzonti. L’approccio è quasi da spin-off, con nuovi protagonisti che rischiano di essere ancora più stereotipati dei loro predecessori (mi riferisco a quelli di Jurassic World), e sparano battutine imbarazzanti per mascherare l’assenza di chimica. Anche il tentativo di dare loro un passato traumatico – soprattutto a Zora e Duncan – appare pretestuoso, di pura facciata: ogni espediente per approfondire il discorso, come l’accenno “politico” sulla condivisione della cura senza brevetto, viene buttato lì senza un’adeguata costruzione. Se ne ricava l’impressione di un film messo insieme di fretta, quantomeno sul piano della scrittura, e lontanissimo dall’aura eccezionale che un tempo ammantava Jurassic Park; ormai è solo l’ennesimo blockbuster, vittima del sovrasfruttamento hollywoodiano. La scelta di risolvere il terzo atto nel solito modo, con i personaggi impegnati a scappare dai dinosauri, rivela che i meccanismi della saga non cambiano mai, e non hanno più molto da dire. Come ostacolo finale puoi mettere un inedito dinosauro mutante, curiosamente simile a uno Xenomorfo colossale, ma non fa una grande differenza: è solo un giocattolo nuovo da piazzare sugli scaffali, nulla più.
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