Non sono più il fan intransigente che ero un tempo. La mezza età saggezza degli anni ti fa capire per cosa vale davvero la pena incavolarsi, e qualunque cosa riguardi il mondo dell’intrattenimento non ne fa parte. Eppure, quando ho letto un paio di giorni fa della fine – per il momento, almeno. Ci torniamo – di quella lunga agonia ormai ventennale chiamata “progetto live action americano di Akira“, ho tirato un sospiro di sollievo così forte da abbattere il monitor. Perché ricordo benissimo cosa provai la prima volta che lessi cosa aveva in serbo Hollywood per far suo uno dei grandi capolavori dell’animazione mondiale, nonché uno dei film che hanno contribuito a diffondere l’amore per gli anime in tutto il globo, nei primi anni 90. E quel che provai fu paura. È una storia lunga e tortuosa, quella di questo cantiere perpetuo ora smantellato da Warner Bros., rinunciando ai diritti. Proviamo ad affrontarla con meno curve possibili, agili come una derapata di Kaneda sulla sua moto superbellissima.
È il lontano 2002. Quando Warner si accaparra i diritti di Akira, ha in mente di ricavarne una pellicola cyberpunk dal vivo che riesca a cavalcare il grande amore per queste IP giapponesi che è esploso da poco in Occidente, proprio grazie a film come Akira di Katsuhiro Otomo (tratto dall’iconico manga dello stesso autore) e Ghost in the Shell di Mamoru Oshii. Quello che Warner non ha modo di sapere, allora, è che finirà oltre vent’anni dopo con lo sventolare bandiera bianca e restituire i diritti a Kodansha, decidendo di non rinnovarli, dopo aver tirato a bordo per questo progetto cinque registi (sei, in realtà) e una decina di sceneggiatori diversi.
I primi a maneggiare la patata bollente sono la coppia formata da Stephen Norrington dietro la macchina da presa e dal fumettista James Robinson a occuparsi del copione. I due hanno in mente di trasporre la storia negli USA, e immaginano una Chicago apocalittica in cui Kaneda e Tetsuo non sono solo amici e poi rivali, ma fratelli. Succede però che Norrington e Robinson hanno appena firmato in coppia anche un altro adattamento da un fumetto, La leggenda degli uomini straordinari, che esce nel 2003 e viene accolto dalla critica a fischioni. Non c’è, come dire, il clima giusto per proseguire: il fattore di rischio è schizzato a più infinito.
La palla passa quindi, qualche tempo dopo, al regista irlandese Ruairi Robinson e allo sceneggiatore Gary Whitta. In questa intervista data a Slash Film, Whitta spiega la sua idea, con la storia di Akira travasata in una NYC mezza giapponese: “Manhattan sarebbe stata controllata dai giapponesi e popolata da 10 milioni di nipponici. Pensai fosse un modo interessante per fondere la cultura orientale e quella occidentale nel film, utilizzando attori di entrambi i Paesi, anziché limitarsi a un white-washing dei personaggi”.
Con Otomo, Whitta disse di non aveva mai parlato direttamente. Ma gli era stato riferito che il mangaka/regista giapponese avrebbe accettato di buon grado delle modifiche alla storia originale, perché voleva vederne “un’interpretazione diversa, non un semplice remake”.
Ma proprio la questione del white-washing citata dallo sceneggiatore salta fuori in tutta la sua brutalità. Tutta la faccenda di trasferire Neo Tokyo a Manhattan, giri di parole a parte, sarebbe servita a ingaggiare Chris Evans come Kaneda e Joseph Gordon-Levitt come Travis, che avrebbe preso il posto di Tetsuo.
Come sarebbero stati, nei panni del capo dei Capsules in giacchetta rossa e del suo ex amico diventato potentissimo? Ce ne possiamo fare un’idea grazie alle immagini di concept art che qualche anno dopo Ruairi Robinson ha pubblicato sul suo sito. Come quella qui sopra, con Tetsuo/Travis portiere dell’Inter, e quella qui sotto. Almeno la moto volevano farla uguale. Va detto.
Nel 2009, Robinson lascia il posto ai fratelli Albert e Allen Hughes, e i due gemelli riprendono la sceneggiatura di Gary Whitta, che viene però rimaneggiata da Mark Fergus e Hawk Ostby, con l’idea di farne un film in due parti. Siamo arrivati al 2011, e varie versioni della sinossi e un intero copione del film iniziano a circolare in Rete: è il momento della grande PAURA di cui scrivevo all’inizio. Non è facile far accettare a chi adora manga e anime di Otomo una storia completamente diversa, con due fratelli occidentali trentenni alle prese con un bambino sadico chiamato Akira. A Manhattan.
Otomo ha ragione, le reinterpretazioni sono più interessanti di un adattamento pedissequo (ora non fate subito i malvagi citando Snyder, dai…), ma a tutto c’è un limite. E siccome i fan armati di forconi e torce non sono il massimo per spingere un film che devi ancora girare, i gemelli Hughes se ne vanno. E senza manco esibirsi prima in una catapulta infernale come i gemelli Derrick.
Come nuovo regista viene scelto lo spagnolo Jaume Collet-Serra. Warner è fermamente intenzionata a iniziare le riprese nel 2012 in Canada, visto che sono già scivolati via dieci anni. Le news dell’epoca inanellano nomi su nomi per il cast, da Keanu Reeves e James Franco a Gary Oldman e Ken Watanabe (entrambi accostati al personaggio del Colonello), passando per Kristen Stewart per Ky Reed (ovvero Kei, protagonista femminile della storia).
Ma nel 2012 non si inizia a girare un bel niente, perché lo studio non è convinto del cast, né del copione, né dei soldi da investire nella cosa. Passano altri cinque anni, durante i quali la sceneggiatura viene riscritta e rimaneggiata da più mani, e anche Jaume Collet-Serra si defila. L’Akira di Warner inizia a sembrare tantissimo un Machiavelli di Boris.
Poco prima che salga a bordo Taika Waititi, nel 2017, si fanno altri nomi, come quelli di Jordan Peele e di George Miller. Ma alla fine è il neozelandese ad accettare l’incarico, e si mette al lavoro su uno script di Michael Golamco: entro il 2021, cascasse una pannocchia di Kobe, Akira sarà nelle sale. Molto intelligentemente, Waititi mette le mani avanti, cercando di evitare le secche in cui si sono incagliati i colleghi: pensa a un film che adatti in modo sufficientemente fedele la prima parte del manga, e da far interpretare a giovani attori USA di origini asiatiche, anche poco conosciuti, anziché a star di Hollywood sopra la trentina.
Solo che Waititi si trova a dirigere altre cose, e Akira resta parcheggiato lì, senza che nessuno creda davvero nella cosa. Inutile dire che il fatto che l’adattamento live action USA di un altro grande classico animato di quegli anni, Ghost in the Shell, sia andato male al cinema, proprio nel 2017, non ha decisamente aiutato…
E arriviamo ai giorni scorsi, a Warner Bros. che rinuncia ai diritti, dopo averci investito soldi e tutto questo tempo. Diritti tornati in mano a Kodansha che, secondo l’Hollywood Reporter, avrebbe però già alla porta una serie di realtà interessate. Se vivevate l’idea di un Akira live action USA come un pericolo, in altre parole, il pericolo potrebbe essere solo rimandato.
Tanto che avete da fare, per i prossimi vent’anni?
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