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Squid Game 3 e il suo finale: dare al pubblico quello che il pubblico vuole

Anche quando non sa di volere proprio quella cosa lì.

Pubblicato il 30 giugno 2025 di DocManhattan

Nell’ultimo week-end, mentre all’esterno si raggiungevano le temperature di Mercurio (ma il signor Bepi su FB mi dice che non c’è da preoccuparsi per il cambiamento climatico, perché pure nell’86, dove abita lui, ha fatto molto caldo), ho trascorso ore incollato alla TV per vedere quelle che sembrerebbero essere (ci torniamo) le ultime stagioni di due serie molto diverse, un po’ per tutto: Squid Game e The Bear. Cos’hanno in comune? Che danno al pubblico quello che il pubblico vuole, anche se non se ne rende immediatamente conto, e reagisce perciò in maniera diversa nei due casi. Oggi parliamo della prima, con un’analisi del finale di Squid Game 3 e quello che ci aspetta per il futuro della saga. Seguono ovviamente spoiler.

Squid Game 3 finale analisi

IL BANCO VINCE SEMPRE

Quel che è certo è che nessuno si aspettava il successo che Squid Game ha avuto in tutto il pianeta. Non se l’aspettava Netflix, che ci ha messo due mesi nel 2021 per far doppiare in italiano la prima stagione, e non se l’aspettava il suo creatore, l’allora cinquantenne Hwang Dong-hyuk, per cui la lavorazione di quella prima stagione era stata così stressante da spingerlo a trascurare l’igiene dentale. Con il risultato che Squid Game stagione 1 gli aveva dato la fama globale al prezzo di sei denti, estratti dal suo dentista perché ridotti malissimo.

Il gioco del calamaro ha fatto furore allora, nel mondo alle prese con i lockdown e spasmodicamente alla ricerca di distrazioni multimediali, perché Squid Game non è solo una declinazione di formule già rodate come quella di Battle Royale, ma una versione supersadica dei Giochi senza Frontiere.

“Trois, deux, un…”, una sirena al posto di un fischietto, e vedi sfidarsi in giochi infantili pieni di pupazzoni e maschere non già paesini sconosciuti come Legnate sul Membro e Anxiété-en-Provence, ma derelitti della società inguaiati dai debiti e perciò pronti a tutto. Un ventaglio di soggetti che con la recitazione super-enfatica propria delle serie coreane (o dei drama giapponesi) racconta due verità molto semplici e universali: l’individuo finisce per essere schiacciato sempre dal sistema, e nelle gare tra poveracci, è più facile mordere i tuoi simili che prendertela con chi è la causa di quello che stai vivendo. Canis canem edit, e non era solo il titolo di un videogioco.

Squid Game 3 finale analisi

ANCHE I BUONI DEVONO MORIRE

Il simbolo di tutto questo è il protagonista, Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), che non solo partecipa a questo gioco mortale per due volte, ma cerca anche di sabotarlo dall’interno. Usando l’umanità contro le regole disumane, brandendo il suo senso di giustizia in mezzo a squali disposti a fare qualsiasi cosa pur di liberarsi di quei miliardi di debiti che si sono accollati. Può riuscirci? Può rompere il gioco? Ovviamente no. E infatti a rompersi è lui, dopo il fallimento della sua rivolta nella stagione 2, e trascorre una buona metà di questa terza stagione in stato catatonico, senza dire mezza parola.

Solo quando si trova investito di una nuova responsabilità, far sopravvivere la più giovane giocatrice che abbia mai partecipato allo Squid Game, Gi-hun torna ad essere un personaggio attivo. Ma il suo destino, tanto, è scritto nelle cose, sin dall’inizio.

Squid Game, dicevamo, è una serie che ha successo anche perché dà allo spettatore quello che vuole. Nell’assistere morbosamente a questo massacro, portato avanti con i più infantili dei contesti, il pubblico desidera essenzialmente due cose. La prima, ed è ovvio, è veder morire male i cattivi. Tutti quei bastardi che hanno fatto precipitare concorrenti inermi in un baratro, li hanno spinti verso una smitragliata delle guardie mascherate, hanno approfittato di chiunque abbia stoltamente pensato di potersi fidare di loro. E fin qui, ok.

L’altro desiderio, però, è più sottile, attenzione. Vedere i buoni della storia che si salvano? La nonnina eroica con un pugnale tra i capelli? La neo mamma Jun-hee? Cho Hyun-ju, che vuole completare la sua transizione e allontanarsi da una famiglia che l’ha ripudiata? No. Sappiamo che sono destinati tutti a morire, visto che alla fine del gioco arriva una sola persona. E allora quello che desideriamo, inconsciamente o meno, è che quelle morti siano drammatiche e strappacuore il giusto, per farci ricordare di loro. Vogliamo commentare con parole volgari l’eliminazione dei villain e con un noooo quella dei buoni, ma siamo lì per la morte degli uni e degli altri. Siamo spettatori sadici, in definitiva, quanto i miliardari che tengono in piedi il gioco.

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SCHIAFFI CALIFORNIANI

Anche se ha tirato fuori nominalmente tre stagioni da materiale sufficiente a farne al massimo due – sarebbe stato probabilmente più corretto chiamare le ultime due Squid Game 2 – Parte 1 e Squid Game 2 – Parte 2, ma sono dettagli – è apprezzabile che Netflix non abbia deciso di spremere la storia di Gi-hun più a lungo. Tanto più se si pensa che la piattaforma si è ritrovata tra le mani non solo un successo inaspettato, ma anche un brand con un’identità visiva fortissima. Hanno fatto bene a fermarsi qui perché già questo secondo giro di giostra era molto simile al primo, non c’era molto altro da aggiungere.

Il modo in cui si è arrivati alla fine è in effetti un po’ bizzarro, però, perché Gi-hun si getta nel vuoto quando ancora mancano un bel po’ di minuti alla fine dell’ultimo episodio, e questi vengono riempiti con tutte le altre sottotrame in merito a chi è ancora in piedi. Quello che fa il Front Man, ciò che ne è di Gyeong-seok, etc. E un attimo prima dei titoli di coda, c’è un indizio di quello che potrebbe succedere dopo.

Cate Blanchett reclutatrice in quel di Los Angeles per il gioco del calamaro, intenta a prendere a ceffoni un tizio che non sa fare i ribaltini col ddakji, potrebbe non essere solo uno sfizioso cameo. Si vocifera da tempo di un David Fincher al lavoro su una trasposizione americana di Squid Game, e secondo Variety questo è un gancio bello pronto. Se non lo è, ha di certo tutta l’aria di esserlo.

Squid Game 3 finale analisi

COSA CI RESTA DI SQUID GAME?

Cioè, a parte tutte quelle feste di compleanno a tema di bambini di dieci anni che non dovrebbero nemmeno sapere cos’è, Squid Game. Ci resta il senso dell’opera di Hwang Dong-hyuk, un’amara metafora della lotta di classe nella società sudcoreana, perfettamente traslabile in ogni angolo del globo, grosso modo. Le disuguaglianze e le storture figlie del capitalismo sfrenato per colpa delle quali, chi si trova sul fondo, per errori suoi o per uno scherzo del destino, diventa uno scarto. O peggio, materiale d’intrattenimento.

Nel suo brutale gioco al massacro, Squid Game funziona perché ti racconta, come il connazionale Parasite di Bong Joon-ho, che non sempre basta spremersi al massimo e lavorare come bestie per ottenere successo e fare i soldi. Che il capitalismo funziona grazie a miliardi di ingranaggi che dovranno fare sempre e solo gli ingranaggi. E per tenerli buoni e miti e al loro posto, basta farli sfogare un po’. Contro i loro simili, naturalmente.

Squid Game 3 finale analisi

Ora immaginate un mondo altrettanto distopico in cui non si partecipa in tuta ai coloratissimi giochi senza frontiere del Calamaro, ma si sfoga la propria frustrazione su un social, urlando la propria rabbia in lettere maiuscole contro sconosciuti, ogni giorno. In cui ci si sente un po’ migliori solo perché si ride delle sfighe, delle miserie di persone messe peggio, o si irride chiunque la pensi in modo diverso da noi. In entrambi i casi, cliccando compulsivamente sull’emoji della faccina che ride. Ah ah ah, ah ah ah, ah ah ah. Mentre chi ha creato quelle piazze virtuali, e chi le ha sfruttate e cavalcate per arrivare al potere, si gode lo spettacolo in poltrona, senza neanche il bisogno di calarsi sul naso una maschera d’oro tamarra. Sarebbe terribile se esistesse, un mondo così, vero?

Di The Bear 4, e del perché dare al pubblico quello che il pubblico vuole lì ha deluso parte degli spettatori, parliamo invece un’altra volta.

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