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Karate Kid: Legends ha imparato la teoria, non la pratica

Il legacy sequel di Jonathan Entwistle tralascia il conflitto sociale, e non riesce a mettere sostanza in uno schema già rodato.

Pubblicato il 05 giugno 2025 di Lorenzo Pedrazzi

È paradossale che, in fatto di legacy sequel, Karate Kid: Legends si sia fatto superare a destra da Cobra Kai. Negli ultimi due decenni, Hollywood ha ceduto il passo alle serie tv in materia di storie per adulti, preferendo concentrarsi sul recupero postmoderno dei franchise: insomma, reboot e legacy sequel dovrebbero essere il suo pane quotidiano. Eppure, stavolta l’intuizione del piccolo schermo ha avuto la meglio, mentre il film di Jonathan Entwistle (lo stesso di The End of the F***ing World e I Am Not Okay With This) è costretto a inseguire, nonostante la saga di Karate Kid sia nata proprio al cinema.

Inutile dire che Karate Kid: Legends fa storia a sé, e mira a rilanciare il franchise indipendentemente dalla serie. Il protagonista è infatti un personaggio nuovo, l’adolescente Li Fong (Ben Wang), che si trasferisce da Pechino a New York quando la madre (Min-Na Wen) trova lavoro presso un ospedale della città. Li ha imparato il kung fu dallo zio Han (Jackie Chan), ma ha promesso di non combattere più dopo un grave lutto familiare. A New York fa amicizia con Mia Lipani (Sadie Stanley), che gestisce una pizzeria insieme al padre Victor (Joshua Jackson); quest’ultimo è un ex pugile di successo che si è allontanato dal ring dopo la nascita della figlia, e deve parecchi soldi a O’Shea (Tim Rozon), sensei di un dojo locale. Per aiutarli, Li si iscrive a un torneo di karate che mette in palio un premio in denaro, ma deve vedersela con Conor (Aramis Knight), campione del dojo ed ex ragazzo di Mia. Trattandosi di un’arte marziale che Li non conosce, suo zio chiede aiuto a Daniel LaRusso (Ralph Macchio), allievo del maestro Miyagi: le loro famiglie sono infatti legate da un antico rapporto, e le rispettive tecniche di combattimento formano “due rami dello stesso albero”.

Il film intreccia quindi la saga principale – ovvero la trilogia degli anni Ottanta di John G. Avildsen – con il reboot del 2010, proponendosi come un punto d’incontro tra le due arti: karate-dō e kung fu. Non serve aver visto Cobra Kai per seguire la storia, poiché la sceneggiatura di Rob Lieber prende una strada autonoma, pur senza contraddire gli eventi della serie. Di fatto, le scene in California sono pochissime, e anche il ruolo di Daniel è abbastanza limitato, tutto concentrato nel terzo atto. Non si può fare a meno di notare una certa gratuità in alcuni snodi narrativi, come se il copione faticasse un po’ a riempire i suoi 94 minuti: il ritorno sul ring di Victor, ad esempio, pare solo un espediente per aggiungere dramma nel rapporto fra Li e Mia. Anche per questo, Legends è come un allievo che ha studiato bene la teoria, ma non sa metterla in pratica.

La struttura è quella ovvia: c’è un ragazzo nuovo in città, flirta con l’ex fidanzata del bullo, quest’ultimo lo umilia pubblicamente, e lui intraprende un percorso formativo per affrontarlo. Non manca nulla, nemmeno l’anziano mentore che lo guida, qui coadiuvato da un secondo sensei (ovvero l’allievo divenuto maestro, altro topos classico). Ma dietro l’affidabilità di questo schema, alla fine, non c’è molta sostanza. Se Johnny Lawrence e il Cobra Kai avevano una personalità riconoscibile, Conor e il suo dojo sono privi del minimo spessore: dietro di loro non c’è alcuna storia, neanche un accenno al passato o al contesto in cui si muovono; l’antagonista è talmente basilare da sembrare un guscio vuoto. Legends, insomma, tralascia l’elemento sociale, vero fil rouge del primo Karate Kid e di molti suoi epigoni. Per buona pace del revisionismo in stile How I Met Your Mother, alla base della vicenda c’era infatti un conflitto di classe (l’emarginato della working class contro lo spaccone viziato della upper class), e il trionfo corrispondeva a un riscatto sociale. Qui invece Li appartiene a un ceto medio-alto, vive in una bella zona di Manhattan, mentre di Conor non sappiamo nulla. La posta in gioco è, più banalmente, il debito da pagare a uno strozzino: buffo che a nessuno venga in mente di rivolgersi alla polizia.

Per il resto, la caratterizzazione di Li sarebbe anche sensata: è quel tipo di guascone à la Marty McFly (in realtà non così diverso dallo stesso Daniel LaRusso) che copre la distanza tra i geek e i ragazzi popolari. Le scene più divertenti sono quelle in cui interagisce con i suoi contrappunti ideali, sarebbe a dire Victor e il tutor scolastico Alan (un’adorabile Wyatt Oleff), come pure l’immancabile montaggio degli allenamenti, sempre suggestivo. Anche le coreografie degli scontri sono valide, per quanto le citazioni acrobatiche dal cinema di Jackie Chan siano un po’ strumentali, e non si addentrino granché nello slapstick; in fondo, la star di Hong Kong è una presenza magnetica ma poco più che simbolica. I combattimenti sono però troppo frammentati dal montaggio, che preferisce inseguire un ritmo concitato invece di valorizzare le suddette coreografie. Peccato.

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