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F1 fa di tutto per rendere avvincente la Formula 1

Il film di Joseph Kosinski ripropone la formula portata al successo da Simpson e Bruckheimer negli anni Ottanta, ma in versione addomesticata.

Pubblicato il 25 giugno 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Manca il fermo immagine finale, ma per il resto F1 è l’attualizzazione di una formula che conosciamo bene, portata al successo da Jerry Bruckheimer e Don Simpson negli anni Ottanta. Tra Flashdance a Giorni di tuono, passando ovviamente per Top Gun e Beverly Hills Cop, i due produttori concepirono una struttura narrativa ricorrente, utile per valorizzare l’individualismo di matrice reaganiana: un approccio perfettamente in linea con l’edonismo dell’epoca, dove la ricerca del successo personale (indipendente da autorità superiori) era il credo più venerato. In fondo, lo stesso Sonny Hayes di Brad Pitt è figlio di quegli anni, e non è difficile immaginarlo sui circuiti Nascar mentre fa concorrenza a Cole Trickle, il Tom Cruise del sopracitato Giorni di tuono.

Ex promessa della Formula 1, Sonny è ora impegnato a correre la 24 Ore di Daytona, che la sua squadra riesce a vincere anche in virtù della sua esperienza. Quando però il titolare della scuderia (Shea Whigham) gli propone di assumerlo per l’anno successivo, Sonny rifiuta: un impiego fisso non è in linea con il suo spirito da cowboy, sempre al galoppo verso il tramonto, libero e solitario. Sonny vive infatti nel suo camper, con il quale attraversa gli Stati Uniti alla ricerca di ingaggi temporanei e nuove esperienze motoristiche. Un’offerta inattesa gli giunge da Ruben Cervantes (Javier Bardem), suo ex compagno di squadra ai tempi della Formula 1: Ruben è infatti proprietario della APXGP, scuderia sull’orlo del fallimento, e ha bisogno di almeno una vittoria per placare il consiglio di amministrazione. Sonny – che si era ritirato dalla Formula 1 negli anni Novanta dopo un grave incidente – accetta di aiutare l’amico, ma dovrà correre al fianco dell’astro nascente Joshua Pearce (Damson Idris), talentoso e arrogante.

Insomma, pur essendoci solo Bruckheimer alla produzione (Simpson è morto nel 1996 dopo una vita di eccessi), F1 cerca di resuscitare la suddetta formula, ampiamente imitata da Hollywood negli ultimi 40 anni: è il cosiddetto high concept movie, con la sua struttura modulare, i tópoi ricorrenti e una premessa molto semplice, riassumibile in pochi secondi. Grazie a questa impostazione, il film può rimescolare le carte senza conseguenze traumatiche. Prendiamo ad esempio il protagonista: essendo già maturo, non ha bisogno di un mentore che lo consigli, al contrario dei giovani eroi che vedevamo negli anni Ottanta; anzi, può assumere lui stesso la funzione di guida per il suo compagno di scuderia, che svolge anche il ruolo di “proto-nemico” (l’avversario apparente, come Michael Rooker in Giorni di tuono e il compianto Val Kilmer in Top Gun). C’è persino il cliché della “donna superiore”, ovvero la direttrice tecnica Kate McKenna (Kerry Condon), con cui ovviamente Pitt intavola subito delle schermaglie amorose. Non manca nemmeno l’antagonista corporativo (il Peter Banning di Tobias Menzies), altro classico del genere: un membro del consiglio d’amministrazione che persegue i propri interessi.

Naturalmente, però, non siamo più negli anni Ottanta: Hollywood è cambiata, e con lei il modo di fare cinema. Senza l’audacia di un Adrian Lyne o di un Tony Scott alla regia, la formula stessa ne esce addomesticata. Non aspettatevi Jennifer Beals che simula una fellatio mentre mangia l’aragosta, né partite di pallavolo omoerotiche con i muscoli che guizzano di sudore. Pur affondando le radici nell’high concept di Simpson e Bruckheimer, F1 è in tutto e per tutto un prodotto dei nostri tempi: lineare, calcolato al millesimo di secondo, privo di ambiguità e follie. Non ci sono guizzi memorabili, né scene che diventano subito (s)cult. È un film girato splendidamente da uno dei migliori professionisti sulla piazza, Joseph Kosinski, in grado di tenere insieme una produzione da 200 milioni di dollari senza mai perdere un colpo, nonostante i 156 minuti di durata complessiva; inoltre, dirige spettacolari scene di corsa che riescono a rendere avvincente persino la Formula 1, non proprio lo sport più travolgente del mondo. Il merito è anche del formidabile montaggio di Stephen Mirrione, capace di cambiare passo all’improvviso per tenere il ritmo della gara.

Il punto, se mai, è che risulta difficile credere a una storia di reietti e underdog in tale contesto. APXGP ci viene presentata come la scuderia più scalcagnata di tutte, ma il lusso della Formula 1 coinvolge persino le squadre meno quotate, che lavorano con mezzi di alto livello e guidano auto costose: per quanto meno esperta delle altre, resta comunque immersa in un ambiente di privilegio. La colpa è attribuibile solo in parte alla sceneggiatura di Ehren Kruger, costretta a misurarsi con un panorama lontanissimo dalla nostra esperienza quotidiana. Sonny, pur avendo fascino, è troppo chiuso nella sua aura da cowboy per suscitare vera empatia, e anche gli altri personaggi hanno qualcosa di respingente; i migliori, come la meccanica Jodie (Callie Cooke) e il team principal Kaspar Smolinski (Kim Bodnia), restano invece ai margini della storia. Il co-protagonista Damson Idris, dal canto suo, si limita a interpretare un Lewis Hamilton di primo pelo, ma senza carisma.

Lo stesso Hamilton è coinvolto come produttore, e appare nel film insieme a numerosi volti noti della Formula 1: ciò che ne deriva è una dispendiosa réclame della FIA, realizzata in grande stile (molte scene sono state girate a Silverstone, Monza, Suzuka e altri celebri Gran Premi) con qualità tecniche invidiabili. Eppure, a emergere è sempre il singolo individuo, l’eroe che galoppa da solo verso il tramonto in cerca di nuove avventure. Da questo punto di vista, F1 è davvero una celebrazione della formula Simpson / Bruckheimer, e delle persone che a quei valori ci hanno creduto fino in fondo.

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