Spesso i migliori sequel sono quelli che aprono nuovi orizzonti alle rispettive saghe, pur mantenendo una coerenza identitaria con i capitoli originali. 28 anni dopo riesce proprio in questo intento, e il merito va attribuito all’intelligenza dei suoi autori: tornando alle radici della loro collaborazione, il regista Danny Boyle e lo sceneggiatore Alex Garland non si limitano a ricalcare il successo di 28 giorni dopo, ma adattano lo sguardo e la tecnica a un mondo in evoluzione.
È un processo indispensabile per un franchise così influente (ha rinnovato il genere zombie nei primi anni Duemila) ma anche un po’ dimenticato, il cui ultimo episodio risale al 2007. Da allora sono cambiate molte cose, sia nella realtà sia nella finzione del racconto. L’epilogo di 28 settimane dopo – dove Boyle e Garland erano coinvolti solo come produttori – suggeriva un’espansione dell’epidemia di rabbia sul territorio francese, ma nel frattempo il virus dev’essere stato sradicato dall’Europa continentale, poiché in 28 anni dopo l’infezione è confinata alla sola Gran Bretagna. Quasi tre decenni dopo la prima esposizione, la società civile è crollata, e sopravvive solo in alcune comunità isolate. Una di queste si trova su un’isola di piccole dimensioni, collegata alla terraferma da un sentiero sabbioso che emerge con la bassa marea. Il dodicenne Spike (Alfie Williams) vive con il padre Jamie (Aaron Taylor-Johnson) e la madre Isla (Jodie Comer), affetta da una malattia che le provoca confusione e perdite di memoria. Nonostante sia ancora un bambino, Jamie vuole portare il figlio sulla terraferma perché uccida il suo primo infetto: una sorta di rito iniziatico a cui vengono sottoposti tutti gli abitanti dell’isola. Mentre esplorano le foreste armati di arco e frecce, Spike scopre che poco lontano vive il Dr. Ian Kelson (Ralph Fiennes), e si convince che quell’uomo misterioso possa curare sua madre.
Se 28 giorni dopo raccontava lo shock e lo straniamento di fronte alla crisi, 28 anni dopo mette in scena la quotidianità di chi ormai si è adattato, e ha trovato un modo per sopravvivere in un contesto precario: non è un caso che il primo film sia del 2002 (gli attacchi terroristici dell’11 settembre si verificarono durante le riprese), né che questo sequel arrivi dopo il Covid e la Brexit. Mostrare il Regno Unito «lasciato indietro» dal resto dell’Europa, come dice uno dei personaggi, rievoca le conseguenze del referendum con cui il paese ha rinunciato all’Unione Europea, seppur esasperate dallo scenario apocalittico. Garland ha dichiarato apertamente questa fonte d’ispirazione, ma senza cedere a richiami troppo didascalici: l’isolamento britannico ha senso nell’economia della storia, ed era stato già adombrato (in tempi non sospetti) nel film originale. L’errore di alcuni pesa quindi sull’intera popolazione, ripercuotendosi indirettamente sull’Europa. Gli echi politici sono evidenti.
Tuttavia, a contare di più è il racconto formativo: 28 anni dopo è un brutale apprendistato nell’apocalisse, raro caso di film horror (non per famiglie) con protagonista un ragazzino. Tale scelta si riflette sulla trama e sul nostro rapporto con i personaggi. Oltre le mura del villaggio, i bambini sono abituati a scoccare frecce fin da piccoli, e il montaggio di Jon Harris alterna le immagini degli addestramenti con inserti di vecchie pellicole: passato e presente dialogano tra loro, mostrando la ricorsività della violenza nella storia umana. È anche in virtù di queste intuizioni che il film diventa un’opera molto diversa dai suoi prequel, dotata di un respiro più ampio e imprevedibile. Boyle arricchisce ulteriormente i suoi stili di ripresa (angoli olandesi, camere a mano, montate sugli attori, primissimi piani, panoramiche dall’alto…) per generare un senso di caos, utile sia nella costruzione della suspense – molto intensa – sia per seguire l’azione. Al contempo, però, riesce a centrare momenti altissimi di lirismo, dove la fotografia di Anthony Dod Mantle lavora in sinergia con le musiche di Hildur Guðnadóttir e della band Young Fathers: il risultato è stupefacente per la potenza delle immagini, che sublimano l’orrore in essenza poetica, a tratti persino metafisica (come le silhouette degli infetti da lontano nel paesaggio brullo). L’apice coincide con il punto di svolta nella giovane vita di Spike, quello che segna il suo passaggio all’età adulta; forse la scena più struggente che il cinema horror ci abbia regalato in tempi recenti, in un film dal carattere umanista che non si abbandona mai al nichilismo.
Colpisce l’eterogeneità della tecnica, e la sua capacità di servire una visione precisa. Alcune porzioni di 28 giorni dopo sono state filmate con una Canon XL1 (a 480p) per restituire la “patina” delle videocamere digitali dell’epoca, mentre 28 anni dopo si affida in parte agli iPhone 15 Pro Max e ai droni, ovvero gli strumenti con cui un amatore documenterebbe l’apocalisse ai giorni nostri. Insomma, non è soltanto un reboot finalizzato a resuscitare la saga, che pure continuerà con un sequel già girato: Boyle e Garland dimostrano ancora una volta come il cinema di genere sia un ottimo strumento per osservare la realtà, e come la realtà – con le sue istanze e i suoi conflitti – sia naturalmente predisposta a filtrare nei generi. Ciò che ne risulta è uno degli horror più belli e sfaccettati del decennio in corso, senza alcun dubbio.
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