Recensioni SerieTV The Doc(Manhattan) is in
Di solito inizio a parlare di una serie disponibile su Apple TV+ (Scissione, a titolo di esempio? D’accordo) cantando il peana della TV di qualità che scivola grosso modo inosservata perché il grande pubblico è distratto da altro, e altrove. Questa volta, però, la colpa è pure mia. Perché The Studio su Apple TV+ è partita a fine marzo, e prima di iniziarla ho aspettato che finisse. No, non sono per la scuola di pensiero “fieno in cascina”, le serie le preferisco durante, è capitato. Ma cos’è The Studio? La versione molto breve: immaginate Boris, però a Hollywood. Non il dietro le quinte di uno show scrauso come Gli occhi del cuore 2, ma la stanza dei bottoni di un grosso studio hollywoodiano, la Continental. Però popolato dalle stesse cialtronate, improvvisazioni, inimicizie, lotte di potere, manifestazioni di nonnismo e dai medesimi dubbi sul politicamente corretto, gli algoritmi, il mercato. La versione lunga è che Seth Rogen ed Evan Goldberg ne hanno combinata un’altra delle loro. I due canadesi terribili che si conoscono sin da ragazzini e hanno messo mano negli anni a un po’ di tutto, da quell’incidente internazionale chiamato The Interview a The Green Hornet di Gondry (se non lo avete fatto, guardateli entrambi), tornano in pista con una satira FEROCE dell’industria del cinema, dei suoi riti, dei suoi protagonisti.
Lo stesso Seth Rogen, qui co-ideatore e co-regista della serie con Goldberg, interpreta il protagonista, Matt Remick. Sfigatissimo neo-boss della Continental, è attorniato dai colleghi (Ike Barinholtz, Chase Sui Wonders), dall’ex mentore – Catherine O’Hara (anche lei come Rogen più o meno ovunque di questi tempi. Ma magari l’effetto è esacerbato dal recuperone di Schitt’s Creek che ho in corso a pranzo) e dal capo del marketing dello studio (Kathryn Hahn, di ritorno dalla Strada delle streghe). Ognuno dei dieci episodi di cui si compone questa prima stagione di The Studio ha un suo tema, e quasi tutti sono sviluppati in modo brillante. Ricoprendo poi il tutto con un quantità folle di cameo, comparsate e citazioni.
Ma, attenzione: non è solo che vedi comparire qui Martin Scorsese, lì Ron Howard oppure Olivia Wilde, Anthony Mackie, Adam Scott o Zoë Kravitz. È che tutti si prestano compiaciuti a questo gioco folle in cui Scorsese è una palla al piede da scaricare, Ron Howard inizia a imprecare e lancia via il suo cappellino da baseball in preda all’ira, Olivia Wilde rotola giù per la collina con l’insegna di Hollywood, e così via. The Studio è una serie che sembra non avere freni, nel modo in cui si manda al diavolo qualunque stella del cinema, vivente e non, perché è quello che farebbero probabilmente dei produttori pasticcioni imbottiti di coca o funghi, in una delle loro riunioni in cui provano a marcare ciascuno il proprio territorio a colpi di ego.
L’aspetto brillante della faccenda, cui facevo accenno prima, è che tutto viene cucito all’interno di un metagioco. Il secondo episodio, per fare un esempio, è incentrato sulle difficoltà di girare una lunga scena in piano sequenza. Bene, tutta la puntata è ovviamente girata in piano sequenza. Tutto quello che viene citato come tipico dei lunghi piani sequenza (le riprese a schiaffo per intervallare, il loop narrativo) dai protagonisti, viene assorbito dall’episodio. È, al contempo, esilarante e scritto e diretto benissimo.
Ma lo stesso vale per i Golden Globe (cosa importa davvero a un produttore che ha già tutto, soldi e potere compresi?) e soprattutto per l’episodio del casting. Non vi anticipo nulla, ma il modo in cui Matt e gli altri si incaponiscono su quello che ritengono il peggior rischio d’inciampo del loro film (la, uhm, risposta della Continental a Barbie), e in questo modo non si accorgono affatto del vero merdone che stanno per pestare, incarna alla perfezione un certo modo di pensare degli Studios, oggi. L’importanza di evitare le polemiche, non di dire o fare davvero qualcosa, con l’unico risultato di andarsele a cercare davvero, le polemiche, per altri aspetti molto più concreti.
D’altronde, Rogen e Goldberg sono – tra le tante altre cose – anche i produttori di The Boys. Moderazione e sottotesti immagino non sappiano cosa sono. E mentre una bobina sparita diventa il pretesto per un noir vecchio stile, e Bryan Cranston, qui nei panni del CEO della Continental, sembra già pronto per un film sullo Stan Lee degli anni Settanta, ho divorato episodio dopo episodio di The Studio, sperando, fortissimamente sperando che qualcuno, da qualche parte, ne avesse già annunciato una seconda stagione. Ed è successo: la fanno, è fortunatamente già ufficiale da un pezzo.
Se vi interessa una serie comedy che faccia ridere, guardatela. Se vi interessa una serie che prenda in giro Hollywood e le sue fissazioni, guardatela. Se vi dilettate nella scrittura o volete fare i registi, è piena di virtuosismi, anche solo per tutti quei long take, perciò guardatela. Se… guardatela. Solo, per l’amor del cielo, se non vi piace quello che fa o dice Ron Howard, NON diteglielo.
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