Cinema Festival Recensioni

Spike Lee a Cannes rivisita Kurosawa con Highest 2 Lowest: Denzel Washington è tanto, ma non basta

Il remake di Anatomia di un rapimento di Kurosawa diventa manifesto personale, ma si perde in una sceneggiatura fragile e sequenze d’azione poco ispirate.

Pubblicato il 22 maggio 2025 di Andrea D'Addio

David King è a capo di un’etichetta discografica indipendente che sta per essere venduta a una major. Vorrebbe evitarlo, comprare le quote di uno dei suoi soci e mantenerne la maggioranza, ma si tratta di una spesa che lo indebiterebbe molto. Gira per la città sempre con il suo autista, il cui figlio è amico del suo, giocano a basket nella stessa squadra. I giorni sono densi di appuntamenti a causa della possibile compravendita dell’azienda, ma tutto si ferma quando una chiamata avverte David King che suo figlio è stato rapito. La cifra del riscatto è altissima. Cosa fare? Chi ce l’ha con lui e perché? È solo una questione economica o c’è di più?

Spike Lee ormai è un regista imprevedibile. I tempi in cui ogni suo lavoro aveva una forza capace di farti vibrare sulla sedia, che fosse per i contenuti politici espliciti o sottintesi (Fa’ la cosa giusta, Jungle Fever, Malcolm X) o per la capacità di spingere al massimo la tensione emotiva in soggetti non suoi — intima in La 25esima ora, o di genere in Inside Man — sembrano alle spalle. O comunque da non dare per scontati. Ha perso un po’ di smalto, e l’ultimo suo lavoro veramente riuscito, in mezzo a opere più o meno discrete, resta BlacKkKlansman, ormai del 2018.

La domanda quindi è: com’è Highest 2 Lowest?

La premessa da fare, prima di andare avanti, è che si tratta del remake — almeno in partenza — di Anatomia di un rapimento di Kurosawa, già adattato in chiave moderna da Steven Soderbergh nella serie Full Circle (2023). A differenza del film giapponese, più incentrato sul confronto tra ricattato e ricattatore come metafora della lotta di classe, Lee rilegge la vicenda all’interno della cultura afro-americana contemporanea. Parla del (mancato) sostegno ai giovani artisti da parte di chi ce l’ha fatta, della mercificazione dell’arte, dell’ossessione per i social più che per il talento vero. È proprio in questi temi che il film trova il suo baricentro e, forse, il suo vero cuore. Non è un caso che alla conferenza stampa di Cannes, Lee abbia detto: «You either build or destroy in this world», rilanciando la responsabilità collettiva degli artisti affermati nei confronti della comunità.

Questa parte dà anche modo a Denzel Washington — alla quinta e forse ultima collaborazione con Lee, come lo stesso regista ha ammesso — di mostrare ancora una volta la sua abilità nel muoversi tra controllo e vulnerabilità. Il suo David King è più teatrale che realistico, ma volutamente così, una maschera della Black Excellence contemporanea. Il suo ufficio, con i ritratti artefatti di sé giovane, diventa quasi una caricatura simbolica — voluta — del suo status. E proprio qui, tra questi spazi, si percepisce la mano di Lee più matura: la direzione artistica è precisa, ispirata al barocco cromatico di Almodóvar, con opere della collezione personale del regista in bella mostra.

Ma la parte di genere, quella più thriller, regge molto meno. Dal coordinamento con la polizia alle scene d’azione — in particolare la consegna del riscatto — tutto appare meccanico, scritto e tagliato con l’accetta, come se servissero solo per collegare le parti più autoriali. L’uso di un motivo musicale ridondante nella colonna sonora, specie nelle scene di azione, finisce per diluire la tensione anziché amplificarla. Un vero peccato, perché una sequenza come quella ambientata durante la Puerto Rican Day Parade avrebbe potuto diventare memorabile. Invece, non decolla.

A livello di scrittura, ci sono nodi narrativi lasciati irrisolti: chi sono i complici del ricattatore? Com’è possibile che riescano a organizzare un piano così articolato senza alcun approfondimento sulla loro rete? Queste falle fanno pensare che, più che costruire un solido plot da cui partire, si sia voluto veicolare un messaggio (anche nobile), e poi, intorno, si sia incollato un remake. Un’operazione inversa rispetto al cinema classico, dove la storia regge e semmai da lì si parte per riflettere sul mondo. .

A$AP Rocky, nel ruolo del rapper Young Felony, è forse l’unico personaggio che suscita un minimo di empatia. Ha rabbia, ha un passato, ha una sua logica — e almeno un momento forte, nel faccia a faccia finale con Washington, che si chiude in un improbabile rap battle che però, paradossalmente, funziona. È lì che Lee grida — quasi letteralmente — il suo messaggio: non è solo una storia di riscatto, è un manifesto. Un’idea dichiarata, forse troppo.

Nota a parte per le spettacolari riprese  di Manhattan, sia dall’alto che vista da Brooklyn (King ha un mega attico su uno dei ponti). L’uso del drone è a tratti virtuosistico, ma comunque contribuisce a creare quel senso di città-mondo che ormai solo New York può restituire

Ad ogni modo Highest 2 Lowest sembra un’occasione più persa che colta. Vale comunque, se si ha modo, una visione. Anche i peggiori momenti di Lee sono meglio dei migliori di tanti altri film.

Il film passerà nei cinema italiani a fine estate e successivamente sarà su Apple TV.

CONSIGLIATI