Madagascar quando arriva in sala, nessuno può immaginare che sarà per la DreamWorks uno dei più grandi successi di sempre. Diretto da Eric Darnell e Tom McGrath, questa dramedy atipica, grottesca, connessa ad un’idea di comicità un po’ vintage, dominerà il botteghino, ma ha avuto da allora anche molti detrattori.
Madagascar nasce a fine anni ’90, e (udite udite) in realtà doveva avere come protagonisti Skipper, Kowalski, Rico e Private, i quattro pinguini, in una sorta di parodia dei Beatles. Invece poi tutto vira verso un mix di survival comedy e buddy movie, con protagonisti quattro viziati animali dello Zoo di Central Park: il leone Alex, la zebra Marty, l’ippopotamo Gloria e la giraffa Melman. Finiscono in Madagascar per una serie di fortunose circostanze, alle prese con una natura incontaminata e molto meno ospitale di quanto pensassero. A dominare quel mondo c’è il buffo Re Julien, con la sua tribù dei lemuri. Alex opera come dissuasore nei confronti dei loro predatori naturali, ma non basta a farlo sentire a casa, lui che era il Re di New York. In breve, Madagascar diventa uno strano miscuglio di ironia demenziale e avventura survivalista. Il primo riferimento che può saltare all’occhio è sicuramente “Il Signore delle Mosche”, il celeberrimo romanzo di William Golding.
Come quei ragazzi bloccati su un’isola, anche Alex e gli altri sono chiamati a confrontarsi con un habitat molto diverso da quello che pensavano ed in breve cominciano a dividersi, a dividere l’Isola stessa e a perseguire due diverse visioni di sé stessi. Alex in breve si rende conto che nello Zoo la sua natura istintiva era negata, lui è un predatore, normalmente cercherebbe di mangiare i suoi amici. Marty e gli altri, un po’ come certi colletti bianchi che mollano tutto e vanno nella “natura”, si rendono conto che la realtà di quell’esperienza è ben distante dalla perfezione, che non esiste il mondo perfetto, esiste quello che creiamo noi. Esemplare in questo senso è la scena della costruzione della Statua della Libertà, da usare come segnale d’aiuto, ma va in fumo in un amen. Lì vi è un simbolo perfetto della distanza tra sogno e realtà, tra un processo di induzione della realtà e ciò che poi essa stessa ci mette davanti. Il tutto però con gag, scenette e dialoghi frizzanti, con quei quattro pinguini che intanto vagano su quella Nave in giro per il globo facendo disastri.
Madagascar verrà aspramente criticato per la sua struttura, per non avere al contrario di altri film dello stesso periodo, un’identità comica definita. In questo c’è del vero, ma non si può tacere di come il film indaghi profondamente il concetto di identità personale, che varia, cambia, a seconda dell’ambiente e della situazione. Chi è veramente Alex? Può essere ad un tempo il feroce predatore di quell’isola e il divo con la criniera cotonata? Poi c’è Re Julien, in realtà un personaggio incredibilmente ambiguo, quasi collodiano, uno che l’amicizia la concepisce solo a proprio uso e beneficio, un narcisista patologico innamorato del suo potere. Madagascar di fatto è una sorta di microcosmo che ci mostra come l’individuo, la società, si modellino rispetto anche alla leadership, con quei quattro pinguini diretti gioiosamente verso un disastro dopo l’altro a causa di Skipper.
Fateci caso, ognuno dei personaggi è spinto dall’egoismo, da un individualismo tossico, il riscoprire il concetto di comunità arriverà solo dopo delusioni e pericoli. Alex, Marty e tutti gli altri si renderanno conto che non è stata una grande idea andare nel loro “habitat”, cercheranno di tornare a New York. Ma, un po’ come ne “Il Grande Gatsby”, riavvolgere il passato è difficile, di certo quell’esperienza ha cambiato tutti loro e non è un caso che poi il secondo film, uscito tre anni dopo, li porti in Africa, a fare i conti non più con un’idea di mondo ideale inesistente, ma con le loro radici più profonde. Qualcuno ci vide in tutto questo un ragionare sul concetto di migrazione, sull’identità americana fatta di mille culture e popoli diversi, di cui la Grande Mela non a caso è contenitore. Madagascar forse non è stato il più divertente e comprensibile dei film d’animazione, ma il successo straordinario raccolto, sta ad indicare che ha saputo toccare un nervo scoperto: quello relativo alla realizzazione personale, a quella felicità che nella civiltà moderna è più un rovello incontentabile che un obiettivo declinato con realismo e sensibilità. Mica poco per un film su quattro animali di New York…
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