Quando Lilo & Stitch giunge ai titoli di coda, il nome di Dean Fleischer Camp ci ricorda per l’ennesima volta che Hollywood è un tritacarne di talenti. Per chi non se lo ricordasse, Camp è il regista del bellissimo Marcel the Shell With Shoes On, gioiello indie del 2021, mentre qui si ritrova a fare il traghettatore dell’ennesimo remake targato Disney: un compito che lascia ben poca libertà, e che rientra nella più disperata strategia commerciale mai intrapresa dallo studio. D’altra parte, con tutti i classici animati rifatti in live-action, era solo questione di tempo prima che toccasse anche al cult di Chris Sanders e Dean DeBlois, tuttora amatissimo e vendutissimo un po’ dappertutto (il merchandise di Stitch è un long seller da più di vent’anni).
Insomma, Camp e gli sceneggiatori Chris Kekaniokalani Bright e Mike Van Waes non devono reinventare la storia com’è stato fatto in Biancaneve, né cambiare la prospettiva come in Maleficent o Crudelia; al massimo, si tratta di aggiornare la vicenda e renderla un pochino più articolata, pur tenendo fede all’originale. Anche qui, Stitch è un esperimento genetico dell’alieno Jumba Jookiba (Zach Galifianakis), e viene esiliato dalla Federazione Galattica perché considerato troppo pericoloso. Manomettendo i comandi dell’astronave, però, Stitch riesce ad atterrare sulla Terra, e in particolare sull’isola di Kauaʻi, dove la Federazione invia subito Jumba e l’agente Pleakley (Billy Magnussen) per catturarlo. Scambiato per un cane, l’alieno viene adottato da Lilo Pelekai (Maia Kealoha), bambina solitaria che ha perso i genitori tempo prima, e vive con la sorella maggiore Nani (Sydney Elizebeth Agudong). Quest’ultima è costantemente sotto il controllo della signora Kekoa (Tia Carrere), assistente sociale che vigila sul benessere di Lilo.
Il rapporto tra le due sorelle, già burrascoso, viene messo alla prova da Stitch, che con Lilo forma una coppia esplosiva: l’alieno è stato creato per distruggere, e trova un alleato ideale nelle malefatte innocenti della bambina. Il legame tra loro avviene proprio per mezzo del caos, attraverso l’insofferenza che entrambi condividono verso le regole (o quantomeno verso i contesti fin troppo strutturati: è significativo che Lilo ami intrufolarsi in un resort di lusso per usare la vasca idromassaggio come i clienti della struttura). Il punto, quindi, è piuttosto ovvio: Lilo e Stitch sono due solitudini che si incontrano nel momento del bisogno, fedelmente a quella tradizione che parte da E.T. e arriva fino a The Legend of Ochi.
Rispetto all’originale, però, il remake aggiunge il personaggio di Tūtū (Amy Hill), vicina di Lilo e Nani nonché nonna di David Kawena (Kaipo Dudoit), il ragazzo innamorato di Nani. Si rafforza così quell’idea di famiglia allargata che ha fatto la fortuna del cinema per ragazzi – soprattutto in animazione – degli ultimi 25 anni, e che qui si esprime nella parola ohana: “famiglia” per la cultura hawaiana, ma nel senso più esteso del termine. Non si può negare il valore di un concetto che trascende i legami biologici, soprattutto in tempi reazionari come questi, in cui il ritorno ai nuclei della tradizione (la mia famiglia, il mio sangue, la mia gente) è molto forte. Lilo & Stitch celebra invece un ampliamento dei confini, al punto quasi da annullarli. Non è una novità, ma fa sempre piacere che accada in un prodotto mainstream.
Purtroppo è anche un film che viaggia col pilota automatico, dove Camp non ha nulla da fare se non assicurarsi che tutto fili liscio, senza guizzi né trovate particolari. Si sente l’aggiornamento alla sensibilità odierna, soprattutto nella caratterizzazione di Nani, che qui ha dovuto rinunciare agli studi di biologia marina per badare a Lilo: in altre parole, viene lasciato maggiore spazio alle sue capacità atletiche e intellettuali, in quanto persona dotata di aspirazioni autonome. La figura di Elvis Presley, invece, diviene secondaria, come pure la sua musica; sembra quasi che il remake l’abbia inserita controvoglia, solo in quanto eredità dell’originale. Senza dubbio, non tutto quello che funziona in animazione riesce bene in live-action, come dimostrano le gag con la ragazzina e il turbolento alieno, ma questo la Disney non vuole proprio capirlo. Anzi, si ostina a forzare i linguaggio dei suoi classici animati nei più rigidi contorni del cinema “dal vivo”, con risultati discutibili. Gli stessi Galifianakis e Magnussen, il cui talento comico è indubbio, non vengono sfruttati al massimo.
In effetti, Lilo & Stitch non offre il meglio di sé nello spettacolo comico, bensì nelle sue sfumature più emotive, quando sfonda la resistenza del pubblico e si fa toccante. È lì che il concetto di ohana diventa più intenso, come pure la tenera sorellanza fra Lilo e Nani: non perdete la scena durante i titoli di coda per godervi il momento più alto del loro rapporto.
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