Dal 2021 il Festival di Cannes apre sempre con una pellicola francese. Dopo il mezzo flop dell’ambizioso Annette di Leos Carax con Adam Driver e Marion Cotillard, forse per evitare di deludere aspettative troppo alte, forse perché davvero si crede nei film proposti, puntualmente vengono proposti progetti d’autore, ma non troppo, vie di mezzo che da una parte possano fare parlare di “arte”, dall’altra però risultino mediamente accessibili a tutti, anche a chi cinefilo non è. E così ecco, nell’ordine, Coupez! di Michel Hazanavicius (2022), Jeanne du Berry di Maïwenn (2023), Le Deuxième Acte di Quentin Dupieux e, ora, Leave One Day esordio in un lungometraggio di Amélie Bonnin, giovane regista e sceneggiatrice francese, che ha rielaborato l’omonimo corto con cui ha vinto un César nel 2023.
La storia è abbastanza canonica per il cinema: una protagonista un po’ in crisi (qui un’emergente chef televisiva che sta per aprire un ristorante e che ha appena scoperto di essere incinta) a causa di un imprevisto (il papà che ha avuto un infarto), torna nella casa di campagna in cui è cresciuta prima di fare successo in una grande città (Parigi). Il ritorno dovrebbe essere breve, ma quei luoghi – inizialmente percepiti come troppo piccoli o lontani dalla sua nuova e sofisticata vita – riemergono con forza. Stando lì, la protagonista riscopre parte di sé stessa, si riavvicina alle proprie radici, riallaccia rapporti familiari e d’infanzia e incontra (o ritrova) un vecchio/nuovo amore mettendo in crisi tutte le sue certezze o relazioni.
Cosa c’è di più in Leave One Day è che, in alcuni momenti, il tutto diventa un musical. I protagonisti esprimono i propri pensieri cantando sulla base di canzoni già esistenti (da Alors on danse di Stromae a Parole di Mina, qui rifatta partendo dalla versione di Dalida & Alain Delon). Normalmente il tutto dura pochi secondi e non diventa mai l’occasione per elevare la scena a un livello di fantasia, nessuna grande coreografia o trovata scenica, si rimane sostanzialmente sul piano del realismo, solo che ciò che poteva essere detto con un dialogo o un monologo, lo si esprime cantando. La trovata è gradevole e dà all’attrice e cantante Juliette Armanet di unire i suoi due talenti, ma è fine a sé stessa.
La protagonista non ha una vera maturazione, tutte le sue scelte rimangono sospese. I problemi che la circondano: abortire o andare avanti con la gravidanza? Continuare il rapporto con il compagno (che sembra un pezzo di pane) o lasciarsi andare al vecchio amore di infanzia? Come gestire il burbero papà? Decidere di non dare risposte definitive può essere una strada, ma se non coglie neanche come tutto ciò a cui abbiamo assistito abbia avuto un effetto sulla protagonista allora ci si trova davanti a un vicolo cieco che, per quanto a tratti emozionate e con dettagli di regia non banali, non è molto interessante percorrere.
Per il suo ritorno al cinema dopo 14 anni, la saga horror ci regala un'altra risata liberatoria di fronte alle assurdità della vita e della morte.
La regista inglese ci regala un altro afflato vitale, contaminando fiaba e realismo per mettere in scena i mutamenti dell'adolescenza.
Ecco la recensione del nuovo film Marvel Thunderbolts* firmata da Roberto Recchioni