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Le città di pianura: il Veneto di Sossai che passa per Cannes è un posto vero, fa ridere e commuove

Un film sull’immobilità che riesce a commuovere e far sorridere. Dentro un bar, ma anche dentro di noi.

Pubblicato il 22 maggio 2025 di Andrea D'Addio

Due uomini siedono a un tavolino. Dalla vetrata dietro di loro si sente il rumore di auto che sfrecciano veloci. Tra di loro invece c’è una fila disordinata di bottiglie vuote. Parlano lenti, biascicando parole appena pronunciate e già dimenticate. Uno dei due è convinto di aver appena detto qualcosa che spiega come funziona il mondo. Ma nessuno dei due se la ricorda. Ridono. Gridano verso il bancone chiedendo un’altra birra, solo dopo però essersi lamentati per il sapore. La barista risponde: “Sono tutte analcoliche. Dopo una certa ora, qui in autostrada non si può più servire alcolici”. A quel punto si alzano, e ripartono. Cercano un posto dove farsi “l’ultima” prima di andare a dormire.

È una delle prime scene di Le città di pianura, secondo lungometraggio di Francesco Sossai, presentato a Cannes 2025 nella sezione Un Certain Regard che, non a caso, usa come titolo francese Le Dernier pour la route (l’ultima e poi basta). In Italia invece il titolo parla del territorio in cui tutta la storia è ambientata. E in fondo, è proprio in questi due titoli che si trovano le chiavi di lettura del film. Da una parte il continuo rimandare, l’eterna sbronza dell’anima. Dall’altra, un affondo tenero e concreto dentro il Veneto di oggi, quello della provincia dimenticata, delle rotonde infinite, dei bar semi vuoti, delle relazioni a metà.

I due protagonisti, Carlobianchi e Doriano, non sono clochard, non sono bohémien, e nemmeno veri falliti. Sono due uomini di mezza età del Veneto profondo, due figure da marciapiede che non si prendono sul serio e che sanno che la vita può offrire giusto piccoli attimi di felicità, se la si prende con leggerezza. In una delle battute più belle del film, diranno a un vecchio conoscente che chiede loro se non sia ora di diventare adulti: “Siamo troppo grandi per crescere”. Ridono, e ci fanno ridere, ma sotto quella frase si nasconde il senso del film: la consapevolezza di non essere più in viaggio verso qualcosa, ma semplicemente di girare in tondo.

Il loro peregrinare tra bar e locali sfiora e provoca, a volte, l’assurdo: incontrano un addio al nubilato, flirtano con le future spose, si intossicano con un cocktail di gamberetti, passano da una situazione all’altra come se fossero personaggi usciti da un racconto orale, di quelli che si raccontano alle tre di notte al bancone. Ma non sono macchiette. Sono dolenti, malinconici, teneri nella loro goffaggine. E veri.

A vivere un arco drammaturgico personale non sono loro. È Giulio – giovane, spaesato, studente di architettura, incontrato per caso – che osserva, assorbe, cresce. Come in tutti i road movie che si rispettino.

Con Le città di pianura, Francesco Sossai fa qualcosa di raro nel cinema italiano: racconta il Nordest contemporaneo senza cliché, senza folklore, senza sguardi dall’alto. Le città che attraversano – Rovigo, Chioggia, piccoli paesi anonimi, statali, zone industriali dismesse – diventano personaggi. Il paesaggio è riconoscibile, ma non pittoresco. È reale. Spoglio, brullo, eppure pieno di umanità, tra Kaurismäki e, a tratti, Jim Jarmusch.

Le città di pianura è un film circolare, come la vita dei suoi protagonisti. Si parte da un bar, si torna a un bar, che però fa gelato. Dopo Altri cannibali, Sossai si conferma come uno dei registi italiani più interessanti della nuova generazione, capace di raccontare marginalità e legami riuscendo a unire autorialità ed intrattenimento.

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