Visto che sta per arrivare sui nostri schermi il prossimo (e, pare, ultimo) capitolo di M:I, ho deciso di riguardare la serie dall’inizio e di recensirvi ogni film.
Siamo nel 1996 e, in quel periodo, una Hollywood affamata di storie e di IP (Intellectual Property, proprietà intellettuali), si convince che le vecchie serie televisive degli anni ‘60, ‘70 e ‘80 saranno TNBG (the next big thing, la “prossima grande cosa”) del cinema. Come si vedrà poi, visto che non abbiamo lunghe serie cinematografiche de Il Santo o dell’A-Team, la cosa non funzionerà proprio alla grandissima se non per una singola eccezione: M:I, serie televisiva nata nel 1966 e proseguita fino al 1973, creata da Bruce Geller con lo scopo di dare agli USA una variante televisiva di James Bond, che sappia coniugare i meccanismi degli heist movie (opere incentrate sull’organizzazione, esecuzione e conseguenze di un “grande colpo”) con quelle delle pellicole di spionaggio, creando al contempo anche una brillante struttura narrativa utile a mantenere il cast sempre fresco e ospitare un gran numero di attori diversi.
La serie ruota attorno a un team segreto chiamato IMF (Impossibile Missions Force), specializzato in missioni sotto copertura ad altissimo rischio per conto del governo americano. Ogni episodio inizia con un messaggio registrato che affida al leader della squadra (Dan Briggs nella prima stagione, Jim Phelps dalla seconda) una missione da completare con una squadra composta da personaggi che si alternano, a seconda delle necessità del piano da mettere in atto. Tutto ruota attorno all’uso dell’inganno, dei travestimenti, della tecnologia, con un ricorso alla violenza diretta estremamente limitato. Tom Cruise, grande fan della serie, acquistò i diritti della serie con la sua appena fondata casa produttrice e affidò la sceneggiatura a David Koepp, Steven Zaillian e Robert Towne. La fase di scrittura fu parecchio problematica e non poche furono le revisioni e riscritture. Alla regia venne chiamato un maestro dei film di tensione, Brian De Palma che già aveva saputo fare bene con un altro adattamento da una vecchia serie televisiva, The Untouchables – Gli intoccabili.
Nonostante vari problemi in fase di sviluppo e realizzazione, l’operazione di Mission: Impossibile riuscì così bene a Tom Cruise da cancellare il ricordo delle sue origini televisive.
Ma com’è oggi, a rivederlo, il film di Brian De Palma che ha dato via a tutto?
Non invecchiato benissimo (come quasi tutto il cinema del regista di Newark, salvo alcune nobili eccezioni). Si apre molto bene, con quello che a De Palma riesce meglio (il portare a schermo la tensione), prosegue altrettanto bene con una scena che combina Hitchcock a Kubrick in maniera felice (sì, sto parlando quella con Cruise appeso) e con un felice momento che porta in scena un discorso metacinematografico sulla realtà e su come si possa ingannarla , ma poi si chiude abbastanza male con una scena sul treno che cerca di conciliare di nuovo Hitchcock con le necessità del blockbuster americano moderno (moderno per l’epoca) e la CGI (brutta anche per il periodo). Inoltre, il film, pur essendo un prodromo di tutto quello che la serie diventerà poi e pur portandone a schermo la maggior parte di quegli stilemi che diventeranno poi tipici (le sciarade bizantine, il piano complicatissimo, la composizione delle squadra, Tom che corre, una singola scena-stunt che poi ti vende da sola il film…) li iscrive in una struttura molto convenzionale e un poco vecchiotta, che soffre di un ritmo sin troppo compassato e discontinuo. Detto questo, la pellicola consegna alla storia del cinema almeno una scena iconica (quella di Tom appeso) e questo è già moltissimo.
Vale la pena rivederlo? Se tenete conto che è un film di trent’anni fa e non di ieri, sì.
VOTO: 7
– Vuol dire che sarà difficile?
– Molto.
– Questa non è missione difficile, è missione impossibile. “Difficile” è una passeggiata per lei.
Poche cose sono più “anni 2000” di Mission: Impossible 2 di John Woo, tra soggetto, regia, estetica e, naturalmente, colonna sonora. Dopo Face/Off, la “Woomania” a Hollywood è alle stelle e il regista honkonghese decide di dare agli americani esattamente quello che vogliono, ma ancora di più, ancora più carico, ancora più esagerato. Un film dove le uniche armi sono pistole Beretta (da usare rigidamente in modalità “akimbo”), dove i barili esplosivi sono a ogni angolo, dove tutti hanno occhiali Oakley, dove le moto (tutte Triumph) cambiano tipo di gomme in corsa, dove le colombe e i piccioni segnano la strada e dove ogni momento vagamente significativo è contrassegnato da un rallenty.
All’epoca era troppo anche per i fan di Woo (come me), oggi è quasi irricevibile. Perché la trama è una idiozia, i dialoghi sono imbarazanti, le sparatorie (assurdo a dirsi) sono depotenziate rispetto alla produzione tradizionale di Woo (Cruise non voleva colpire i cattivi con più di tre proiettili, per non sembrare crudele) e il ritmo è sbilenco e perché, soprattutto, moltissimi momenti oggi sembrano più una parodia del cinema di John Woo che il cinema di John Woo in carne e ossa. Però: la sequenza d’apertura sulla montagna, il tango delle auto, la lunga scena delle moto (è qui che Cruise comincia a dare spettacolo facendo gli stunt da solo) e la sottovalutatissima ma eccezionale scena di combattimento alla fine, valgono sempre le due ore necessarie per vederlo (o rivederlo per l’ennesima volta, come nel mio caso).
Non il migliore Woo, non il migliore Cruise, non il migliore M:I e, di certo, non il miglior Anthony Hopkins, ma un film manifesto di un periodo come pochi.
E comunque, sempre divertente.
VOTO: 7
Siamo nel 2006, sono passati sei anni da capitolo precedente e parecchie cose sono cambiate nel mondo e a Hollywood, che ora sta facendo i conti con una concorrenza televisiva sempre di maggiore qualità e successo.
“Se non puoi vincerli, fatteli amici” si dice, e quindi ecco che alla regia viene chiamato il televisivo J.J. Abrams, che si porta dietro i fidati Alex Kurtzman e Roberto Orci. I tre, assieme, hanno realizzato la serie Alias, di cui Cruise è grande fan e Abrams è anche fresco del successo planetario di Lost (ed è a causa di questa serie che le riprese del terzo capitolo di M:I verranno posticipate più volte). Abrams è al suo esordio sul grande schermo e viene scelto come successore di maestri come De Palma e Woo, non la più facile delle situazioni. A complicare ulteriormente il tutto, Cruise è nella fase più delicata della sua carriera e non sembra esattamente… sano di mente. Il film esce con un hype sensibilmente minore rispetto ai precedenti e tutti hanno l’impressione che che abbia lo scopo di abbassare i toni esagitati del secondo capitolo e di normalizzare tutto quanto.
Ed è proprio cosi.
La trama non si prende neanche la briga di creare un vero MacGuffin e tutto ruota attorno alla solita “materia rossa” che Abrams introduce in Alias e che si porterà dietro fino Star Trek, c’è una scena una in stile M:I (quella in Vaticano, che poi è anche il momento migliore del film) ma, per il resto, è un generico film action senza particolari picchi (no, neanche la tanto celebrata scena del ponte è davvero speciale come ci piace ricordarcela, balzo di Cruise contro la fiancata dell’auto a parte).
Nonostante l’uso e l’abuso di shaky cam e lens flare, Abrams non riesce a fare un cinema dinamico e spettacolare come vorrebbe e, soprattutto, a togliersi di dosso la televisione: il suo esordio al cinema sembra un episodio di lusso di Alias ma senza Jennifer Garner. Uniche note di vero merito: un Philip Seymour Hoffman cattivo e inquietantissimo, Cruise che corre tantissimo e Simon Pegg che entra a far parte della squadra. Per il resto, un film mesto e trascurabile, privo di idee e di vita, che poteva essere la fine di questa saga.
Voto: 6
2011.
Cinque anni dal capitolo precedente.
In mezzo è successo di tutto. Tom Cruise. Si è innamorato, sposato e diventato di nuovo padre. Poi è impazzito da Ophra. Poi lo hanno fatto (si mormora) Papa di Scientology. E Hollywood lo ha scaricato. Totalmente. Senza preavviso. Tutti i contratti cancellati. Una character assassination in piena regola, messa in atto da un sistema sempre più ostile al suo personaggio, alla sua influenza, al suo potere e a Scientology (giustamente). Hollywood però sottovaluta alcune cose di Cruise in questo tentativo di cancellazione ante litteram: l’agonismo monomaniacale e ossessivo dell’attore e produttore, il suo culto della personalità, la sua intelligenza e talento e, soprattutto, il fatto che il pubblico lo ama ancora. Così, Tom rifonda la sua carriera un film alla volta, costruendoseli praticamente da solo e rimettendosi in gioco a ogni livello, fino al colpo da maestro del cameo autoironico in Tropic Thunder, che lo rilancia completamente.
E quando Cruise si sente nuovamente sicuro sulle gambe, assesta il colpo definitivo: un nuovo M:I, la sua IP (nel senso che non solo ne è protagonista ma che gli appartiene a tutti gli effetti) di maggior pregio, prematuramente data per morta dopo i risultati in flessione del terzo capitolo.
Parliamo del film.
La formula è chiara: fare con il quarto capitolo di M:I quello che è stato fatto con il quarto capitolo di Fast & Furious. Tutto è uguale alla formula originale, ma tutto è anche completamente diverso, più fresco, più veloce, più esagerato, più focalizzato sull’azione per l’azione, sul movimento per il movimento. Alla regia, Brad Bird al suo debutto con un film live action (dopo un paio di successi mondiali in casa Pixar).
Ghost Protocol è un film eccezionale per due atti e trascurabile nel terzo, al punto che tante persone, in una specie di effetto Mandela, sono convinti che il finale del film sia la scena a Dubai (scalata del grattacielo con consueta sciarada e inseguimento nella tempesta di sabbia). Il cattivo poi, è del tutto trascurabile. Però, la squadra c’è, Cruise è tirato a lucido, il ritmo funziona e arriva anche tanto umorismo cartoonesco e non. Il risultato non è ancora il prodotto perfetto ma la strada è quella giusta.
Voto: 7
2015.
Cruise e Christopher McQuarrie si sono conosciuti per Operazione Valchiria, uno di quei film che Cruise ha girato nel periodo un cui Hollywood cercava di nasconderlo sotto il tappeto, scritto da McQuarrie, appunto. Si devono essere piaciuti perché poi, assieme, hanno realizzato il primo (ottimo) Jack Reacher che McQuarrie ha anche diretto (dopo l’ugualmente buono Le vie della violenza, di parecchi anni prima) e alla fine Cruise ha chiamato il regista per dare una svolta a M:I. McQuarrie è tutto tranne che uno scemo e assieme Cruise si mette al tavolino per creare un M:I perfetto, che riporti in scena tutti gli elementi riusciti dei primi cinque capitoli e elimini tutto quello che riuscito non era, esaltando l’idea di cinema di movimento dei primordi e di performance, che a Cruise sta tanto a cuore.
Il film si apre con l’impensabile stunt di Cruise appeso all’aereo (che diventa poi l’elemento su cui si costruisce tutta la promozione del film) e continua senza mai fermarsi, in una successione infinita di momenti topici, girati benissimo, sostenuti da un gran ritmo e da bei personaggi (e Rebecca Ferguson è una grande aggiunga alla squadra originale). Il suo unico punto debole? Ancora una volta un cattivo impalpabile (che troverà solo nel capitolo successivo un suo corpo) ma, a fronte di tutto il resto, è un difetto veniale.
A margine: tutti parlano della scena dell’aereo ma anche il momento “lap dance” di Cruise, come anche il bellissimo inseguimento sulle moto, non sono da meno. Divertente, spettacolare, solido, inarrestabile. Quando esce, questo film è M:I al suo meglio. Ma il meglio del meglio deve ancora venire.
Voto: 8
2018.
Se Rogue Nation, quinto film della serie a opera di Cruise e McQuarrie è stato quasi perfetto, ma a Cruise le cose “quasi” perfette non piacciono e così, assieme all’ormai inseparabile regista e sceneggiatore, torna a costruire un nuovo capitolo che dovrà diventare il punto di riferimento assoluto per il genere action occidentale. E, non troppo sorprendentemente trattandosi di Cruise, ci riesce, orchestrando non solo un’infinita serie di momenti di azione semplicemente assurdi, ma andando a risolvere il più storico difetto della serie: l’assenza di un vero antagonista di livello. In poche parole, l’aggiunta di un Henry Cavill determinato a dare il massimo e in formissima (la sua miglior parte? La sua miglior parte) fa fare il balzo di ulteriore qualità che mancava.
Fallout, semplicemente, è un film incredibile dal primo momento e resta tale fino alla fine. La scena da vero spy thriller in apertura, il salto HALO (un lancio con il paracadute da altissima quota), la fantastica scazzottata nei bagni del locale, il momento “No Russian” (una controversa missione di Call of Duty, il videogame, che sembra venire omaggiata dal film), l’articolatissima scena in moto e auto per le strade di Parigi, la corsa sui tetti (con tanto di Cruise che si rompe la caviglia in un balzo), il momento in cui Ethan è appeso a un elicottero e via dicendo…
Cast in spolvero, con tutti gli attori che hanno un loro momento per brillare, script complesso ma non confuso, ritmo altissimo senza essere inutilmente esagitato, regia in stato di grazia e, ovviamente, un Cruise che si spende come non mai. Il M:I perfetto, finalmente, e uno dei migliori action mai realizzati da quando Edwin S. Porter girò la sua grande rapina al treno (nel 1903). Il cinema di movimento per il movimento, al suo apice.
Voto: 9
2023
Settimo capitolo della saga, il più difficile per il contesto pandemico e post-pandemico (con Cruise che crea da zero le procedure per girare in sicurezza che poi sono state copiate da tutta Hollywood e hanno preso il nome di “Protocollo Cruise”), quello più grande e sfidante sotto il punto di vista produttivo e di messa in scena, quello con gli stunt più assurdi e spettacolari. Il dietro le quinte di questo film, è un film a parte che, per molti versi, è molto meglio dell’opera in quanto tale.
Non che Dead Reckoning sia brutto, anzi: ha al suo interno tantissime cose buone: l’idea del cattivo di turno e i suoi scagnozzi, la gestione dei numerosissimi personaggi di contorno, il ritmo, l’andamento corale complessivo, la varietà delle situazioni, ma che soffre il fatto di essere la prima parte di una storia che non trova conclusione.
A visione terminata, restano tre grandi scene (quella di apertura nel deserto, il salto di Cruise con la moto e il finale appeso nel treno, che ricorda da vicino un momento del videogame Uncharted 2) ma non si è del tutto soddisfatti perché ci si interrompe sul più bello.
VOTO: 7
2025.
E ci siamo: l’atto finale della saga di M:I.
Ci crediamo che sia davvero la fine? Io un poco ci credo. Almeno per quello che riguarda Cruise perché, semplicemente, è molto difficile ipotizzare come possa andare oltre, sia per la sua età (è in formissima, sia chiaro, ma gli anni ci sono e si cominciano a vedere tanto), sia per i limiti della sua immaginazione, cioè della sua capacità in sognare e poi portare a schermo cose nuove e inedite nell’ambito di questo franchise.
E purtroppo, questo limite, a mio parere, si è raggiunto con Fallout, mentre Dead Reckoning e The Final Reckoning non sono altro che un “more of the same”. In grande stile, certo, ma pur sempre una reiterazione di momenti e soluzioni “WOW” a cui lo spettatore si è ormai abituato. Sia chiaro, con questo non voglio sminuire il salto con la moto del settimo capitolo o l’incredibile scena sulle ali del biplano di The Final Reckoning, dico semplicemente che per quanto li trovi momenti performativi senza eguali, sequenze che omaggiano splendidamente il DNA stesso del cinema (quello dove attori vestiti da cowboy saltavano davvero da un vagone all’altro del treno, dove Buster Keaton davvero era aggrappato al muso di una locomotiva in movimento), non mi lasciano più molto in termini di stupore. Sia perché è difficile eguagliare un salto HALO da venticinquemila, o lo stare appesi alla carlinga di un Airbus A400M in fase di decollo, o il prendere al volo un elicottero in volo, sia perché questi momenti sono diventati così centrali nella promozione dei film di M:I che ci vengono mostrati nel dettaglio ben prima che il film raggiunga la sala, rovinando (e non di poco) l’effetto sorpresa che dovrebbero generare. Per carità, lo capisco: sono uno strumento per invogliare la gente ad andare al cinema eccezionale, però è un peccato.
Comunque sia, i problemi di The Final Reckoning sono tutti qui? Nel fatto che quando la tanto attesa scena del biplano arriva, non genera lo stupore che invece dovrebbe?
Purtroppo, no. Il film parte davvero molto piano, con chiacchiere, spiegoni e riassunti che non hanno una particolare ragion d’essere, se non quella di riannodare i fili di tutti gli episodi precedenti assieme, andando a ricostruire e giustificare anche quello che proprio era meglio lasciare com’era (mi riferisco, in particolare, alla “zampa di lepre” del terzo capitolo). È un modo per celebrare il franchise e i suoi protagonisti e autori, certo, ma dura un’ora e venti sulle due ore e trenta complessive del film, e pesa non poco, perché per quanto alcune premesse e il tono molto “da fine del mondo” siano piuttosto interessanti, a stringere nel film ci sono solamente tre scena d’azione in totale: una di tono minore (una breve scazzottata in un sottomarino alternata con una sparatoria impossibile da prendere sul serio alle Svalbard), una sottomarina, molto bella e articolata e, infine, la scena sul biplano.
Nessun inseguimento a piedi (Cruise corre piuttosto poco in questo film e, quando lo fa, la scena ha anche poco senso) e, sopratutto, nessun inseguimento con auto o moto (e questa è davvero un’anomalia per i film della serie). Inoltre, la nemesi digitale ideata per il capitolo precedente non mantiene le promesse e si rivela come l’ennesimo antagonista impalpabile del franchise, di certo non aiutato da ugualmente deboli cattivacci in carne e ossa che risultano francamente risibili, anche nelle logiche delle loro azioni. E qui veniamo al punto peggiore di tutti: i meccanismi di causa ed effetto dello script non hanno senso: le cose succedono perché sì, i personaggi agiscono secondo logiche prima enunciate a parole ma poi negate dai fatti, non è mai chiaro perché una azione dovrebbe essere decisiva o meno o perché una cosa che prima funzionava in una maniera, un attimo funziona nella maniera diametralmente opposta.
È un film confuso che continua a ripeterti “funziona così perché sì, non farti domande” (che non è neanche il più grave delitto che un action possa fare) e che un attimo dopo cambia idea e ti dice “adesso, invece, funziona così”, sovvertendo quelle regole arbitrarie che lui stesso aveva stabilito un attimo prima. “Fidati di me” ripete Cruise per tutto il film e io l’ho fatto ma, purtroppo, la mia fiducia è stata tradita perché a stringere, una volta uscito dalla sala, l’unica che che mi sono portato davvero a casa è stata molta noia, una bella scena di tensione in un sottomarino e lo stunt sulle ali del biplano, che purtroppo avevo già visto. Troppo poco per un film così lungo e che vorrebbe essere così significativo.
Mi duole davvero dirlo ma The Final Reckoning non è il finale che la saga di Mission: Impossible merita.
VOTO: 5,5
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