Richard Linklater ha sempre amato la Nouvelle Vague. È evidente guardando molti dei suoi film: dal suo debutto, Slacker (1991), dove non c’era un unico protagonista, ma tante persone che (soprattutto) parlavano (e basta) con una libertà narrativa assoluta di temi, alla trilogia Prima dell’alba/tramonto/di mezzanotte (1995/2004/2013), passando per Waking Life (2001). Non è quindi sorprendente — se non per il fatto che per la prima volta abbia girato un film in francese — che ci sia lui a dirigere Nouvelle Vague, film presentato in concorso al Festival di Cannes 2025 e che racconta la preparazione e i giorni di riprese di Fino all’ultimo respiro, il capolavoro con cui Jean-Luc Godard esordì nel 1960, diventato manifesto di uno dei movimenti cinematografici più celebri della storia del cinema.
Parigi, 1958. Godard vuole fare un film. È l’unico, a suo avviso, dei critici dei Cahiers du Cinéma, a non essersi ancora messo dietro la macchina da presa. I suoi amici Chabrol e Truffaut sono già affermati, manca solo lui. Truffaut gli passa l’idea per un film nonché il suo produttore per I 400 colpi, Georges de Beauregard. Il film si può fare. Anche se non ci sono molti soldi né una sceneggiatura fatta e finita. Però si può partire. Iniziano così 23 giorni fuori dal comune, fatti di eccentricità e una vera e consapevole volontà di rivoluzionare il cinema: tagli di montaggio, narrazione che prima corre e poi sembra fermarsi senza che ce ne sia una reale ragione, un film che mette prima di tutto le emozioni al centro della storia a scapito di linearità e apparente compattezza.
Linklater mostra tutto questo in bianco e nero e con uno schermo a 4:3. Tutto sembra dell’epoca, dalla fotografia ai volti dei suoi attori, tutti tremendamente somiglianti ai personaggi che interpretano (c’è anche una bravissima Zoey Deutsch nei panni di Jean Seberg). Paradossalmente il film invece non sembra della Nouvelle Vague quando si tratta di sceneggiatura e montaggio: tutto qui sembra molto calibrato, assolutamente non spontaneo, statunitense, non francese.
Tra i dettagli più curiosi c’è l’uso didascalico ma mai pesante di sottotitoli per identificare le figure storiche coinvolte: non solo Godard, Belmondo, Seberg o Beauregard, ma anche presenze più laterali come Juliette Gréco o Agnès Varda. Alcune sequenze sono dichiaratamente meta-cinematografiche, come se Linklater volesse riflettere non solo sul film di Godard, ma sulla costruzione stessa di un mito. In questo senso, si avverte l’eco del suo Me and Orson Welles (2008), altro racconto sulla genesi di un capolavoro. E se lo sguardo su Seberg è quello più emotivamente carico, capace di suggerire tensioni interiori e conflitti artistici, manca forse un momento in cui Linklater si sporga davvero oltre la reverenza per dire qualcosa di personale.
È un limite o un punto di forza? Difficile dirlo. Si ride, a tratti, ma ci si annoia anche un po’. È un film destinato a dividere: c’è chi lo considererà un omaggio riuscito, e, rapportandolo alla grandezza del film e delle figure che celebra, tenderà a elevarlo — come se da un capolavoro non potesse che nascere, almeno in parte, un altro capolavoro. E chi, invece, lo giudicherà per ciò che realmente offre, da solo. Che è una visione interessante e godibile, ma poco audace. E poiché tutto il film richiama un’epoca in cui il cinema osava, il paragone viene naturale. E non regge.
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