C’è un pezzo di vita in ogni film di Andrea Arnold, e Bird non fa alcuna differenza. Anzi, la regista inglese torna persino nella natia Dartford, cittadina industriale del Kent dove aveva già girato Wasp, il suo cortometraggio premiato con l’Oscar nel 2004. Aria di casa, insomma, tant’è che il ritorno alle origini non è solo geografico, ma tematico e ambientale: dopo la sconfinata epopea americana di American Honey, il documentario Cow e alcune serie tv, Arnold ripercorre infatti quelle tracce autobiografiche che impreziosivano il suo cinema degli inizi, punto di riferimento per chiunque osservi la realtà attraverso una macchina da presa.
In effetti, si percepisce grande cura nello sguardo dell’autrice sul mondo di Bailey (Nykiya Adams), dodicenne che abita con il padre Bug (Barry Keoghan) e il fratello maggiore Hunter (Jason Buda) in una casa popolare occupata. Proprio come la stessa Arnold, anche lei è figlia di genitori giovanissimi: sua madre Peyton (Jasmine Jobson) l’ha avuta quando era adolescente, e ora vive poco distante con altri tre figli. Da parte sua, Bailey naviga tra le irrequietezze della sua età, in un contesto sociale ben poco stabile. Non sopporta che Bug stia per sposarsi con Kayleigh (Frankie Box), conosciuta appena tre mesi prima, e cerca sempre di intrufolarsi tra gli amici di Hunter, che organizzano ronde di vigilantes per punire i violenti. Quando conosce il misterioso Bird (Franz Rogowski), un forestiero bizzarro ma amichevole, Bailey ne resta profondamente affascinata; decide quindi di aiutarlo a cercare sua madre, che viveva in un condominio della città.
È qui che la regista dà una svolta inedita al suo cinema, imboccando la strada del realismo magico. Certo, gli indizi sono disseminati fin dall’inizio: basta notare la grazia con cui Arnold e il direttore della fotografia Robbie Ryan accarezzano i dettagli della stanza di Bailey, mentre il montaggio di Joe Bini si sofferma su una piuma, sui muri imbrattati di disegni o sulle farfalle che indugiano fra le dita della ragazza. La stessa colonna sonora di Burial, enigmatico prodigio della musica elettronica, ha una dolcezza che sembra trasfigurare la realtà in una dimensione sospesa, magica ed eterea. D’altra parte, anche Bird sortisce questo effetto: il sempre meraviglioso Franz Rogowski gli infonde un’anima duplice, divisa tra questo mondo e quell’altro, come se fosse presente e assente allo stesso tempo, le membra ancorate al terreno e lo spirito in procinto di spiccare il volo. Per gradi, cominciamo a intuire che in lui c’è qualcosa di sovrannaturale, o quantomeno di transumano. Accade allora che gli elementi fantastici – più evidenti nella parte finale – diano corpo al desiderio di fuga della protagonista e alle sue fantasie di evasione, ma siano anche la manifestazione fisica del cambiamento adolescenziale, del corpo stesso che cambia. Non a caso, l’incontro con Bird e il menarca di Bailey (aiutata in questo da Kayleigh, con cui scopre un’insperata solidarietà) avvengono nello stesso periodo: le sfumature fiabesche contaminano un verismo quasi documentaristico, per rappresentare non solo l’universo interiore di una giovane donna, ma anche il suo stato di evoluzione costante, il suo organismo in perenne mutamento.
Pochi registi sono capaci di mettere in scena l’irrequietezza dell’adolescenza come Andrea Arnold, e questo lo sappiamo fin dai tempi di Fish Tank. Una volta tanto, le riprese con la camera a mano sono giustificate dal suo sguardo intimo e sincero, che vive e si muove con i suoi personaggi, palpita e sussulta insieme a loro; il fantastico non fa che aggiungere un piacevole senso di straniamento, soprattutto in relazione ai volti splendidamente credibili (mai patinati) che popolano il cinema dell’autrice. Anche le riprese con il cellulare, frammentando la realtà nei suoi più minimi particolari, parlano il linguaggio della protagonista e della sua generazione: sono la testimonianza di una mente aperta al mondo, attratta dalle pieghe nascoste della quotidianità. Lo stupore discreto che vediamo in queste scene esplode poi nelle corse in monopattino sulle strade della cittadina, quando Bug suona la sua “musica da papà” (così la chiama Bailey), e ci fa volare insieme a loro. Se in Fish Tank era California Dreamin’, qui ci sono The Universal dei Blur e Lucky Man dei Verve: i tempi sono cambiati, ed è il momento che anche noi Millennial ci sentiamo un po’ più vecchi. In fondo, Bird non è solo il racconto formativo della protagonista, ma una presa di coscienza per tutti noi. La vita, come suggerisce l’epilogo, è una questione di cambiamento, non di stasi.
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