Il cinema di Julia Ducournau è dedicato sempre al corpo, alle identità che mutano, si deformano, esplodono o si reinventano. In Raw (2016) il cannibalismo diventava metafora di un desiderio adolescenziale incontenibile. In Titane, Palma d’Oro a Cannes 2021, il corpo invece generava, amava e uccideva, si faceva macchina e figlio, diventando una sfida al concetto stesso di umano. Un cinema che disturba, che si può amare o detestare, ma che non lascia indifferenti perché, anche se con dolore, scava.
Date le premesse, Alpha era attesissimo qui a Cannes 2025, dove è in concorso. Si inizia subito dal corpo: quello di un uomo pieno di buchi sul braccio. È un tossicodipendente? Ha una malattia? La bambina che gli sta accanto lo accarezza come una figlia che vede il padre morente. Stacco. Un altro corpo. E sempre una bambina, stavolta più grande, ormai adolescente. È lei a stare su un lettino, ed è sul suo braccio che appaiono i buchi in divenire di qualcuno che le sta facendo un tatuaggio. Intorno c’è una festa in casa, sicuramente non il contesto igienico adatto. Anche perché – e questo lo scopriamo poco dopo – in giro c’è un’epidemia di una malattia che si trasmette proprio attraverso aghi infetti.
Ed infatti la mamma, quando vede il tatuaggio, si preoccupa. È un medico e la porta subito in ospedale a fare dei controlli, per il cui esito però ci vorranno alcune settimane. A poco a poco si capisce che la malattia era stata un tempo un grande spauracchio: si pensava potesse trasmettersi anche con un semplice contatto (un bacio), ma ora è, diciamo, più sotto controllo, o comunque se ne conoscono molte caratteristiche. Se ti infetti, il tuo corpo a poco a poco diventerà di marmo. Forse però c’è una cura, almeno così sembra, vedendo – alternando il passato e il presente – la storia dell’uomo dell’inizio, colui che dopo un po’ capiremo essere lo zio della bambina.
Aghi, persone omosessuali tra le prime vittime, paure di contatti fisici e un’ambientazione anni ’80 (vedasi l’auto della dottoressa, una Peugeot 205): la malattia del film è l’AIDS, ci sono pochi dubbi. È qui il cuore di Alpha, quel centro attorno cui si muovono i tre personaggi del film: la bambina (l’Alpha del titolo), la mamma (interpretata da Golshifteh Farahani) e lo zio (Tahar Rahim).
Il racconto si muove su due piani temporali che solo se si è molto attenti si ha modo di riconoscere (semplicemente ci sono toni blu per il presente, rossi per il passato). Nel primo, la Alpha di oggi vive con il sospetto di essere infetta, il bullismo scolastico, una relazione incerta con un coetaneo, e un rapporto teso e opaco con la madre. Nell’altro, ambientato anni prima, rivive i momenti con lo zio Amin, una figura tragica con cui ha avuto solo brevi intercorsi, ma capaci di lasciare il segno. I due piani però si confondono continuamente. Il montaggio – volutamente onirico, disturbato – smarrisce il senso della progressione emotiva. Il risultato è più confusione che ambiguità narrativa.
Anche sul piano della scrittura dei personaggi, c’è poco da dire. Nessuno ha un arco che si evolve nel corso della narrazione. Alpha rimane Alpha, la mamma – ossessionata dal cercare di tenere in vita tutti – non sembra avere una personalità oltre a quella di medico, dei fantasmi nella testa di Amin non ci viene detto nulla. Il suo ruolo è mostrare un corpo divorato dal male e basta. Le metafore più nascoste e criptiche che sicuramente Julia Ducournau ha inserito tra le righe sono troppo criptiche per essere sviscerate una a una.
Allo stesso tempo, la forza visiva delle immagini non è così intensa da entrare sotto la pelle dello spettatore. Ci sono alcuni momenti straordinari, come la disintegrazione della schiena dello zio durante una visita o, in generale, l’avvolgersi del marmo sui corpi dei malati, ma non sono abbastanza. Sembra quasi che il film sia nato sull’idea di queste sequenze e che la trama intorno sia solo un pretesto per poterle costruire. Alcune sottotrame poi, come la ricerca di una cura che la dottoressa annota sul suo quadernino, o la nonna che crede ancora nella stregoneria, vengono completamente abbandonate (e allora perché evocarle?). Risulta poi ignota la ragione per cui sia stata coinvolta un’attrice ormai famosissima come Emma Mackey per un ruolo (l’infermiera) così insignificante, un quasi cameo di cui è difficile capire le ragioni.
Il montaggio e la colonna sonora – che alterna classico ed elettronico a volumi da rave – per quanto impressionanti, schiacciano lo spettatore più che guidarlo. Solo nel finale si ha la sensazione che qualcosa si chiuda. Alpha osserva, forse comprende. Forse è cresciuta. Forse no. Ma a quel punto il film ha già esaurito la sua carica emotiva.
Alpha è, paradossalmente, il film più freddo di Ducournau. È forma che implode su sé stessa. Non c’è desiderio, non c’è tensione, non c’è vero conflitto, ma un lungo esercizio di stile, attorno a un tema coraggioso, che però non riesce a conquistare il cuore di quello spettatore a cui vorrebbe parlare. Tutto rimane liscio, compatto. Di marmo. E noi spettatori, come le statue del film, restiamo immobili.