Mentre le trasposizioni cinematografiche più recenti riconducono i videogiochi a codici e linguaggi ben riconoscibili (incontrando peraltro un notevole successo commerciale), Until Dawn punta invece ad assimilarne le meccaniche reiterative nell’economia del film, giustificandole attraverso la trama. Un’operazione, questa, che paradossalmente è riuscita molto bene ad alcune produzioni originali, o comunque non basate sui videogiochi: i casi di Source Code e Edge of Tomorrow sono esemplari, in tal senso. Certo, il titolo di Supermassive Games è già di per sé un film interattivo, e adattarlo per il grande schermo significa privarlo di quelle caratteristiche che lo rendono speciale, ovvero l’interazione con gli elementi di gioco e la possibilità di determinare il proseguo della storia. Per fortuna, la sceneggiatura di Blair Butler e Gary Dauberman imbastisce un intreccio diverso, anche se potenzialmente ambientato nello stesso universo narrativo: l’unica costante è Peter Stormare nel ruolo del Dr. Hill, o almeno di una sua variante, per così dire.
Gli altri personaggi sono inediti, come pure i loro interpreti. Clover (Ella Rubin) è in viaggio con gli amici Max (Michael Cimino), Megan (Ji-young Yoo), Nina (Odessa A’Zion) e Abe (Belmont Cameli) per cercare sua sorella Melanie (Maia Mitchell), misteriosamente scomparsa un anno prima. Le ultime tracce li portano a Glore Valley, cittadina mineraria che sembra sparita nel nulla: tutto ciò che resta è il centro visitatori, in una radura circondata dalla foresta. Il gruppo nota alcune stranezze, come la clessidra montata sul muro o le firme sul registro delle visite, che si ripetono fino a tredici volte, diventando sempre più incerte e tremolanti. Quando vengono attaccati da un assassino mascherato, Clover e gli altri si rendono conto di essere bloccati in una specie di loop temporale: ogni giro di clessidra fa comparire una nuova minaccia, e se muoiono sono costretti a ricominciare da capo. L’unico modo per uscirne vivi è resistere “fino all’alba”, per l’appunto.
A questo proposito, il film di David F. Sandberg prende alla lettera il titolo del gioco, trovandogli una motivazione all’interno del racconto. La ripetizione dell’esperienza (con i protagonisti che, dopo ogni morte, si ritrovano nelle condizioni di partenza) rievoca i meccanismi videoludici basati su tentativi ed errori, ma la differenza è che la minaccia è variabile, o fa capolino in altri contesti: l’apprendimento empirico diviene quindi un’impresa più ardua, che richiede preparazione e collaborazione. D’altra parte, il gioco stesso non si affidava tanto al trial and error, quanto all’espediente delle scelte multiple, per agevolare la fluidità della narrazione verso uno dei finali possibili. Grazie alla trovata della clessidra, Sandberg può invece divertirsi a torturare i personaggi senza immediate conseguenze, trasformandoli in quello che sono sempre stati nella storia dell’horror dagli anni Settanta in poi: carne da macello. Solo che qui, con una soluzione metanarrativa più o meno consapevole, il loro sacrificio è reiterato ed esplicito, fa parte della trama. I corpi di Clover, Max, Megan, Abe e Nina vengono pugnalati, sventrati, mutilati, fatti esplodere, posseduti, infettati e via massacrando, con un certo gusto per lo splatter che – seppure lontano dal sadismo di un Terrifier – resta notevole per una produzione hollywoodiana. Il merito è anche del buon mestiere del regista svedese, che integra la CGI con validissimi effetti pratici, la cui resa “materica” non lascia indifferenti.
È proprio in virtù della sua struttura reiterativa che Until Dawn coagula gli ultimi vent’anni di horror americano, sintetizzandone correnti, sottogeneri e modalità di messa in scena. C’è un po’ di tutto: dallo slasher alle possessioni, dalle mutazioni del body horror ai parossismi dello splatter, con quella punta di consapevolezza postmoderna (in verità solo accennata) che ormai è quasi obbligatoria. Non manca nemmeno una compilation di orrori found footage – comunque giustificata dallo sviluppo del racconto – che rimanda alle tendenze di quindici anni fa. Viene naturale ripensare a Quella casa nel bosco, altro compendio del genere horror che confina i protagonisti fra le mura di un singolo edificio, salvo rivelare una realtà più grande che si estende al di fuori di esso: Until Dawn non è altrettanto arguto e originale, ma la matrice è innegabile. Il problema, qui, è che ogni tentativo di spiegazione “logica” è fragilissimo, mentre l’epilogo – che pure ha il merito di superare i cliché della final girl – appare frettoloso e trascurato. Il limite dell’operazione è proprio questo: si preoccupa più degli effetti che delle cause, e preme sullo spettacolo horror per nascondere una trama confusa. Quando i nodi vengono al pettine, l’impianto rivela tutta la sua debolezza.
Bisogna però riconoscergli di aver adattato il videogioco in modo non troppo didascalico, risalendo alle sue radici originali (i sottogeneri che lo hanno influenzato) invece di cedere ai soliti ammiccamenti da fan service: è la politica che caratterizza Playstation Productions nelle sue trasposizioni, anche quando non sono particolarmente riuscite come nel caso di Uncharted e Gran Turismo. Se The Last of Us è indubbiamente il risultato migliore, Until Dawn riesce quantomeno a offrire un intrattenimento discreto, ben confezionato sul piano tecnico. A patto di sorvolare sulla fragilità del contesto, s’intende.
Un film tratto da un gioco ispirato ai film, in un grande momento per i videogame, su schermi grandi e piccoli.
Remain è il titolo ufficiale del prossimo progetto di Shyamalan, la lettera di Ryan Coogler per ringraziarli del supporto a I Peccatori
Dal primo teaser di Weapons alle notizie sul sequel di Finché morte non ci separi, passando per la trasposizione del videogioco OutRun e altro ancora.