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Un film Minecraft è l’emblema di come funziona Hollywood

Dominio dell’IP, accordi commerciali, disperata consapevolezza di sé, continui ammiccamenti al pubblico: il film di Jared Hess è una sintesi dei blockbuster contemporanei.

Pubblicato il 03 aprile 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Un film Minecraft è davvero l’emblema della Hollywood contemporanea, a partire dal titolo originale – A Minecraft Movie – che dichiara l’esasperata autocoscienza del progetto. Il regista Jared Hess lo sa bene, e probabilmente lo sanno anche i vertici di Warner Bros., Legendary Pictures e degli altri studios coinvolti: trarre un film da Minecraft, il fenomeno videoludico creato da Markus “Notch” Persson, è di per sé un’idea assurda. E il film riflette in pieno questa consapevolezza, pur senza mai trarne vantaggio.

La trama stessa è un puro pretesto. Jack Black interpreta Steve, chiamato e vestito come l’avatar basilare del gioco: appassionato di miniere fin da bambino, Steve vive in una tranquilla città di provincia dominata da una vecchia fabbrica di patatine. Un giorno, mentre cerca svago in una miniera locale, il nostro eroe trova un misterioso cubo luminoso che gli permette di entrare nell’Overworld, sorta di universo parallelo composto da mattoncini. Qui, Steve può esprimere la sua fantasia al massimo della potenza, costruendo edifici, strumenti, armi e molto altro. L’incontro con Malgosha (doppiata in italiano da Mara Maionchi) mette però a rischio il suo sogno creativo: la potente strega vuole infatti conquistare l’Overworld insieme al suo esercito di maiali guerrieri, e ha bisogno del cubo per aprire un portale.

Conosciamo ben presto gli altri protagonisti di questa avventura. Determinata a ripartire da zero dopo la morte della madre, Natalie (Emma Myers) si è appena trasferita in città con il fratellino Henry (Sebastian Hansen), ragazzino con il talento per le invenzioni. Ad accoglierli trovano Dawn (Danielle Brooks), agente immobiliare nonché proprietaria di uno “zoo su ruote”. Garrett “The Garbage Man” Garrison (Jason Momoa) è invece una piccola celebrità del posto: ex campione di arcade negli anni Ottanta, ora Garrett rischia di perdere il suo scapestrato negozio di videogiochi, e nasconde la solitudine dietro una maschera vanagloriosa. Insieme, finiranno loro malgrado nell’Overworld e si uniranno a Steve per salvarlo.

Non è difficile intuire l’assurdità della storia, anche perché Jared Hess si è fatto le ossa in un cinema indie stralunato e surreale, come dimostra Napoleon Dynamite. D’altra parte, il suo approccio sarebbe anche quello giusto: Minecraft è un gioco sandbox, e il regista lo tratta in quanto tale, costruendo liberamente la trama e divertendosi all’interno di quel mondo insieme ai personaggi. Ad appesantire l’adattamento c’è però il famigerato carrozzone dei blockbuster hollywoodiani, con i suoi obblighi commerciali e le strategie di marketing. Nel regno delle proprietà intellettuali, Un film Minecraft è il sovrano assoluto: abbiamo un celebre videogioco alla base della produzione, insistiti product placement, accordi con celebri marche di biscotti e catene di fast food; insomma, il pacchetto completo. Niente di nuovo, intendiamoci, ma qui l’operazione è talmente palese da diventare irritante. Non c’è un minimo di costrutto che giustifichi la storia, né un reale impegno nei confronti dei personaggi: anche i tentativi di dare loro un passato (il lutto di Natalie e Henry, la malinconia di Garrett) si rivelano soltanto degli orpelli narrativi, troppo artefatti ed estemporanei per trasmettere sincerità.

Il problema è proprio questo: nessuno ci crede per davvero. Se pensiamo a The LEGO Movie, anche lì c’era uno spirito postmoderno e autocosciente, ma gli autori (oltre ad avere idee migliori) credevano in quello che stavano facendo, ed erano convinti di parlare a un pubblico cross-generazionale con diversi livelli di comprensione. Qui, invece, troviamo solo un completo disimpegno. Né Jared Hess né i numerosi sceneggiatori – ben cinque – si sforzano di dare sostanza a questo mondo fantastico e al suo rapporto con la realtà, ma si limitano a celebrare la fantasia come forza costruttiva, peraltro in modo alquanto timido. Le regole dell’Overworld vengono enunciate solo per essere smentite poco dopo (l’alternanza repentina tra giorno e notte, ad esempio, sussiste solo quando fa comodo), mentre le forzature logiche abbondano, e le gag comiche mancano spesso il bersaglio. Insomma, siamo più dalle parti di Pixels e dei nuovi Jumanji, ma non è proprio un complimento.

Lo stesso Jack Black fa di tutto per mettere la sua energia al servizio del film, e canta persino delle canzoni volutamente ridicole, purtroppo doppiate nell’edizione italiana. Si torna però al discorso iniziale: questa disperata consapevolezza di sé, che induce a guardare tutto dall’alto per ammiccare continuamente al pubblico, è la rovina dei blockbuster contemporanei. Del tipo, “Sì è assurdo portare Minecraft al cinema, lo sappiamo bene, ahah, facciamo tutti parte dello scherzo”. Ma c’è qualcuno che ride di gusto? Perché l’esito finale ha il fiato cortissimo, e non smentisce mai l’impressione di assistere a uno spot multimilionario lungo 100 minuti. In fondo, non è altro che quello.

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