Il cinema è un’arte di trucchi formidabili, ma non tutti resistono alla prova del tempo. La stagione dei pupazzi, retta quasi per intero sulle spalle di Jim Henson, è durata un ventennio scarso, tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta: un’epoca in cui la grafica digitale stava muovendo i primi passi (o era ancora troppo rudimentale per un impiego su larga scala), e le creature fantastiche prendevano vita sullo schermo grazie a tecniche artigianali, ovvero l’animazione in stop motion, gli attori travestiti e – per l’appunto – i pupazzi manovrati da esperti burattinai. Naturalmente c’è sempre qualcuno che cerca di resuscitare quest’arte perduta, ma spesso si tratta di feticismi puramente ideologici, come abbiamo visto nella nuova trilogia di Star Wars. Il caso di The Legend of Ochi, però, è ben diverso: nell’esordio di Isaiah Saxon, il ritorno dei pupazzi trova un senso nella poetica stessa del film, ed è solo uno dei numerosi strumenti che concorrono a dipingere questo mondo fiabesco, peraltro cooperando in modo organico.
In effetti, pur traendo ispirazione dalla realtà, The Legend of Ochi si svolge su un’isola fittizia del Mar Nero, chiamata Carpathia. La popolazione locale vive nel terrore degli Ochi, misteriosi primati che si nascondono sulle montagne, apparentemente pericolosi sia per gli umani sia per il bestiame. Maxim (Willem Dafoe) pattuglia le foreste con la figlia Yuri (Helena Zengel), il figlio adottivo Pietro (Finn Wolfhard) e una squadra di ragazzini che addestra come cacciatori. È proprio durante una ronda notturna che Yuri, emotivamente lontana dal padre, trova un cucciolo di Ochi separato dai genitori e lo porta a casa per curarlo. Non è solo una ribellione adolescenziale: nella connessione con gli Ochi, Yuri sente di poter ripercorrere le orme di sua madre Dasha (Emily Watson), che ha lasciato la famiglia anni prima e vive isolata sulle alture circostanti. La ragazzina si mette quindi in viaggio per riportare il cucciolo ai suoi cari, scoprendo ben presto di poter comunicare con lui attraverso i suoni.
Tale comunicazione non verbale è il filo rosso che attraversa la storia. Grazie a essa, Yuri mostra di ricordare gli insegnamenti materni, ponendosi in continuità con una linea ereditaria femminile che nella natura non vede una minaccia, bensì un’opportunità di conoscenza. In quest’opposizione tra natura e cultura, Maxim rappresenta invece quest’ultima: è l’esponente di una civiltà che, facendosi più organizzata e complessa, ha sviluppato anche una paura per l’ignoto. Dal canto suo, Saxon auspica un ritorno all’infanzia, con la sua apertura verso il mondo, la sua curiosità, il suo istinto che trascende qualunque razionalizzazione verbale. Esaltando il dialogo “canoro” tra Yuri e il piccolo Ochi, egli rifiuta lo specismo antropocentrico del sistema in cui viviamo: ogni altra creatura ha pari diritto di occupare la Terra, e il rapporto con gli animali ci permette di riconnetterci al nostro intuito primordiale, non mediato da sovrastrutture.
È qui che le soluzioni tecniche si rivelano vincenti. Ben lungi dall’essere un capriccio nostalgico, l’utilizzo dei pupazzi serve proprio a valorizzare tale dimensione fanciullesca, un’età in cui si fa conoscenza del mondo attraverso il tatto. Il piccolo Ochi non è un fantasma in post-produzione, ma una presenza fisica sul set, solida e percepibile: la dolcezza istintiva del rapporto con Yuri è frutto anche della sua esistenza “materica”, e del fatto che Helena Zengel possa prenderlo in braccio, accarezzarlo, portarlo in spalla. La straordinaria qualità del pupazzo fa il resto, con la sua espressività facciale e la fluidità dei movimenti. Se si considera anche il grande utilizzo di matte painting (sfondi dipinti) e l’impiego di costumi con teste animatroniche per gli Ochi adulti, è inevitabile ripensare al cinema del passato: di fronte alla particolarissima atmosfera del film, tornano in mente Labyrinth e altri classici fantasy degli anni Ottanta, dove i pupazzi conservavano però una punta d’inquietudine, e rischiavano di sfociare nel perturbante. Qui invece la sinergia con il digitale – spesso invisibile – garantisce una certa naturalezza al mondo del film e alle sue creature, pur senza sacrificare il lato immaginifico. La stessa Carpathia è un’irresistibile fantasia post-sovietica, divisa tra verosimiglianza e rielaborazione personale (splendidi i colori delle automobili e degli interni commerciali: si veda la scena ambientata al supermercato).
Ciò che ne deriva è quindi un’avventura rassicurante, che privilegia le emozioni mediane rispetto ai grandi acuti: intenerisce senza commuovere, fa sorridere ma non sganasciare, è dolente senza essere tragica. Con un soggetto del genere (ovviamente mi riferisco a E.T.), Steven Spielberg ci ha fatto piangere come fontane, mentre Saxon non ha quel calore umanista, quel trasporto emotivo che mette a nudo il cuore; piuttosto, The Legend of Ochi sembra rifarsi all’asprezza della natura est-europea, alla freddezza ipnotica e riflessiva del suo cinema. Difficile considerarlo un film per famiglie, anche se certamente è quello che più gli si avvicina tra le produzioni di A24: siamo però lontanissimi dal passo concitato dei blockbuster hollywoodiani, o dai continui ammiccamenti dei franchise multimilionari. Il suo pubblico ideale è forse composto dai sognatori adulti, desiderosi di riconnettersi con la loro anima più istintiva, fanciullesca e disposta all’ascolto.
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