Per tutti quanti lui sarà sempre Hellboy, ma la verità è che la carriera di Ron Perlman è stata molto più complessa, particolare e atipica di quanto si possa pensare, lo ha portato spesso a collaborare con il cinema indipendente, fantasy, horror. Faccia di pietra, occhi spiritati, fisico da golem, un’espressività assolutamente fuori dagli schemi. Quella che segue è una lista dei suoi 5 personaggi, 5 ruoli più importanti, quelli che l’hanno reso a modo suo un volto indimenticabile del cinema.
Tantissima televisione nella carriera di Ron Perlman, ma di certo dopo Hellboy, l’altro ruolo che l’ha maggiormente distinto è quello di Clarence “Clay” Morrow in Sons of Anarchy di Kurt Sutter, una delle serie più acclamate del XXI secolo. Clay Morrow inizialmente è il Presidente, il Leader della SAMCRO, una gang di motociclisti violenta e legata all’IRA. Morrow è anche la figura attorno a cui la serie costruisce maggiormente il suo legame con la tragedia shakespeariana, data la sua natura ambigua, a dir poco tenebrosa eppure complessa e seducente. Patrigno di Jax (Charlie Hunnam) e compagno di sua madre Gemma (Katey Sagal), nella realtà Clay ne ha ucciso il vero padre, per strappargli non solo la moglie, ma anche controllo del club. Lui lo ha legato strettamente al narcotraffico e al commercio di armi.
Sons of Anarchy permette a Ron Perlman mandi tratteggiare un personaggio indimenticabile, Clay Morrow è spietato astuto, manipolatore, violento ma è anche un uomo che prova sincero affetto per Jax, Emma, considera quel club la cosa più importante della sua vita, e appare chiaro che la Guerra del Vietnam ha avuto un impatto tremendo sulla sua psiche. In lui c’è un qualcosa di Re Lear, di Macbeth, è un personaggio tanto più intrigante, quanto simbolo stesso di una dannazione, di una perdizione, che fa rima con tradimento. Tutto questo gli costerà infine non soltanto la vita, ma anche l’amore di chi faceva parte della sua famiglia. Tutto questo Perlman riesce a renderlo tangibile, vero, reale, recuperando in parte anche il concetto di villain nel film western.
Jean-Jacques Annaud è stato un regista fondamentale nel percorso di Ron Perlman e Il Nome della Rosa rappresenta ancora oggi una delle performance più incredibili da parte dell’attore newyorkese. Tratto dal capolavoro di Umberto Eco, ambientato in un medioevo oscuro, barbarico e terrificante, vede Sean Connery nei panni di Guglielmo da Baskerville, che si trova a indagare su una serie di misteriosi morti che hanno sconvolto un’abazia. Assieme al suo assistente Adso da Melk (Christian Slater) cercherà di fare luce su una macchinazione, un complotto, in cui è coinvolto suo malgrado anche il frate Salvatore. Questi è un monaco gobbo, deforme, affetto da una sorta di strano handicap mentale, parla una lingua tutta sua, qualcosa a metà tra il volgare e il latino (con un mix di parole francesi, inglesi e spagnole).
Supportato da un trucco impressionante, Ron Perlman è straordinario nel rendere Salvatore una sorta di creatura di Frankenstein, un emarginato anche dentro a quelle mura. Pur essendo stato dolciniano (ribelle alla volontà della Chiesa) il più delle volte appare distante dalla realtà, ignaro di ciò che gli accade intorno, di quei libri intrisi di arsenico. Salvatore finirà ingiustamente sul rogo a opera del fanatico inquisitore Bernando Gui (F. Murray Abraham), accusato di stregoneria. Nella sua morte, vi è tutta l’intolleranza, l’odio, l’ostilità verso i diversi dalla norma e Ron Perlman è assolutamente straordinario nel rendere tangibile la sua sofferenza, mettendo sul piatto una performance fatta di un’espressività che si connette ai mimi, alla tradizione dei giullari.
Se con il primo film già aveva convinto, nei panni di Hellboy, e con il secondo, Hellboy: The Golden Army, sempre di Guillermo del Toro, che Ron Perlman diventa per tantissimi spettatori nel mondo un vero e proprio divo. Il diavolaccio dal braccio corazzato e il sigaro in bocca, riceve da lui un’altra performance magnifica. Perlman lo rende una specie di incrocio tra Clint Eastwood, John Wayne e un Humprey Bogart. Hellboy : The Golden Army è un vero e proprio capolavoro, uno dei più bei cinecomic mai concepiti, una straordinaria avventura fatta di creatività, fantasia, in grado di avere un sapore incredibilmente vintage, recuperare il genere fantasy negli anni ’80, e assieme di aprire verso una nuova concezione del racconto supereroistico.
Ron Perlman, grazie ad una sceneggiatura maggiormente approfondita e curata, ha la possibilità di rendere il suo personaggio più interessante, più articolato, ancora più irresistibile nella sua capacità di essere mattatore assoluto, un vero e proprio carro armato, ma allo stesso tempo portatore di una fragilità e una sensibilità, tipiche degli emarginati, di chi vorrebbe essere realmente parte della società. Straordinaria la chimica di Doug Jones e Selma Blair, superiore anche a quella del primo film. Per non parlare della rivalità con il Dottor Krauss di Seth MacFarlane, con cui riesce a creare dei siparietti irresistibili. A 17 anni di distanza siamo ancora qui a chiederci come sia stato possibile non chiudere la trilogia, ma di certo, questo film rappresenta per molti versi l’apice della carriera di Ron Perlman sul grande schermo. Di certo una delle maggiori dimostrazioni del perché solo lui poteva essere un Hellboy credibile.
Il film che lo ha lanciato, che ha fatto sì che quel suo volto spigoloso, quella fisicità così atipica, venissero notate. Ron Perlman in quel 1981 è tra i protagonisti de La guerra del fuoco di Jean-Jacques Annaud, tratto dal romanzo di J. H. Rosny aîné, uno dei film più audaci, ambiziosi e memorabili di quell’inizio di anni ’80. Secondo molti, ancora oggi, il migliore o se non altro il più riuscito di sempre che ci parli dell’alba dell’umanità, della preistoria. Il regista francese confeziona un racconto avventuroso dove gli uomini di Neanderthal ci vengono mostrati più simili a bestie che altro, eppure anche lì in mezzo riesce ad inserire il tema del potere, dell’amicizia, dell’affetto.
Utilizzando una lingua totalmente fittizia creata ex novo da Anthony Burgess, Everett McGill, Rae Dawn Chong, Nameer El-Kadi e Ron Perlman si aggirano per una terra selvaggia, pericolosissima, dove però più che gli animali selvaggi, le intemperie o la fame, devono temere i propri simili. Coadiuvato da trucchi e costumi di altissimo livello, da una fotografia di Claude Agostini che riesce a ottimizzare ogni possibile sfumatura delle varie location, La guerra del fuoco è un piccolo capolavoro, uno straordinario affresco capace di rendersi simbolo dell’umanità in senso generale. Tante cose sono cambiate, abbiamo fatto passi da gigante, eppure l’uomo rimane sempre l’uomo a dispetto di tutto, con i suoi pregi e le sue debolezze, il suo coraggio e la sua viltà. Nel ruolo di Amoukar, Ron Perlman è sicuramente l’interprete più espressivo, quello più credibile, con un personaggio sovente comico, scorbutico, ma non per questo meno importante.
Magari in pochi oggi se la ricordano, ma questa serie tv, che rielabora in modo creativo la celeberrima fiaba di Jean Cocteau, a suo tempo fece parecchio rumore. Dalla Francia del ‘600 ci si trovò nella New York dei nostri giorni, Linda Hamilton nei panni di una Belle ora avvocato in carriera. Ron Perlman? Naturalmente lui, la Bestia, alias Vincent, in una città dove i reietti, i diversi dalla norma, vivono nei sotterranei. Palesemente connessa al concetto di mutante fumettistico reso popolare dalla Marvel, La Bella e la Bestia rimane però ancora oggi un cult assoluto, una delle migliori serie tv fantasy di tutti i tempi, tanto audace nel suo rielaborare la fiaba originale, quanto riuscita nella sua dimensione di critica metaforica alla società americana di quegli anni, al reaganismo e all’intolleranza verso le minoranze.
Ron Perlman nei panni de la Bestia è magnifico, è un eroe come se ne sono visti pochi, è sorretto da un trucco tra i più complicati e interessanti di quegli anni, creato da Rick Backer, e anticipa per molti versi quel superamento dei canoni classici disneyani che di lì a un decennio troveranno in Shrek il perfetto compimento. Sovente connesso anche al thriller e al melodramma, La Bella e la Bestia ha dalla sua un world building tra i più originali mai concepiti, la capacità di essere fedele nella semantica pur se molto diverso a livello di trama e personaggi. Durata tre stagioni, la serie tv è diventata un simbolo di sperimentazione assoluta di quegli anni, con un remake nato nel 2012. Rappresenta anche un momento decisivo nella carriera di Perlman, che si guadagnò un Golden Globe.