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Julie ha un segreto ha molto da insegnare sulla narrazione degli abusi

Il film di Leonardo Van Dijl dimostra come si possa raccontare una storia di abusi assecondando i tempi e la libertà della protagonista.

Pubblicato il 09 aprile 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Il titolo originale di Julie ha un segreto si può tradurre come “Julie è silenziosa”, e rende meglio l’intento di Leonardo Van Dijl in questo suo primo lungometraggio. È significativo, però, che la versione italiana sposti l’attenzione sul versante più morboso (“un segreto”), riflettendo le modalità con cui stampa e opinione pubblica tendono ad affrontare i casi di molestie sessuali, per non parlare dei femminicidi. Eppure, il film non lavora su questo aspetto, ma sulla risposta della protagonista alle pressioni esterne: il silenzio, per l’appunto, e il suo peso sull’intera vicenda.

Non è un caso che la prima inquadratura ritragga l’eponima Julie (Tessa Van Den Broeck, vera tennista al suo esordio cinematografico) mentre si allena da sola, mimando il gioco senza pallina. Ogni suo movimento è preciso, energico: capiamo subito che lo sport assorbe gran parte della sua vita. In quanto giovane promessa della sua accademia, è tenuta in grande considerazione dalla Federazione Belga, e anche il liceo le garantisce orari flessibili. Ben presto, però, capiamo che la suddetta accademia sta vivendo un momento drammatico: Aline, altra stella nascente del tennis giovanile, si è tolta la vita, mentre il capo allenatore Jeremy (Laurent Caron) è stato sospeso dall’incarico. Su quest’ultimo è in corso un’indagine interna, ma Julie continua a frequentarlo senza supervisione. Nonostante gli insegnanti le chiedano se ha qualcosa da raccontare, lei si concentra sugli allenamenti, chiusa in sé stessa.

È chiaro fin dal principio che Van Dijl modella la narrazione attorno al silenzio di Julie, adottando un passo greve e riflessivo (peraltro tipico del cinema fiammingo). In effetti, la chiave del film è proprio il suo silenzio: la scelta di tacere non riguarda la paura, né tantomeno la complicità con il carnefice, ma il rifiuto di subire uno stigma sociale. In un mondo che spesso riduce le donne al loro trauma (l’abuso, la perdita, la malattia…), Julie non vuole essere identificata con ciò che l’ha ferita, non vuole permettergli di definire la sua esistenza. È anche per questo che, quando il nuovo allenatore le chiede di mostrare agli altri allievi come si batte un secondo servizio, lei reagisce con insofferenza: non desidera essere posta al centro dell’attenzione, né ricevere favoritismi.

Van Dijl, a tal proposito, è bravo a evitare qualunque genere di didascalismo. Non ci sono dialoghi rivelatori, o scene madri in cui esplode il dramma: ogni sviluppo della trama, sia narrativo sia psicologico, va colto dalle sfumature e dalle reazioni della protagonista. Il racconto procede infatti per vie secondarie, senza mai attraversare gli eventi in modo diretto, ma giocando molto sull’implicito, sui vuoti di una quotidianità solo in apparenza banale. Il non detto ha un ruolo determinante, come pure le conversazioni sussurrate nella penombra di una stanza. Il punto è che nessuno ha diritto di pretendere qualcosa da Julie, né di insegnarle come reagire; è il film che deve muoversi al suo ritmo, non viceversa. Così, Van Dijl le concede tutto il tempo di cui ha bisogno per aprirsi, purché sia lei a deciderlo, libera da pressioni esterne. Forma e contenuto coincidono, focalizzando finalmente l’attenzione sulla persona, invece che sul trauma.

A offrire un contributo fondamentale è anche la fotografia in 35mm di Nicolas Karakatsanis (lo stesso di Tonya), la cui grana grossa restituisce un’idea molto suggestiva di cinema verità, ruvida e desolante, solo smussata dai brani malinconici della compositrice Caroline Shaw. L’esito finale riesce nell’impresa di mostrare le conseguenze degli abusi sulla vita di una giovane donna, ma evitando morbosità e pietismo. Per buona pace del titolo italiano.

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