E come potrebbe, del resto? Come potrebbe, Black Mirror, spaventarci con il nostro futuro, con quello che la tecnologia ci riserva per il domani, se già l’oggi e l’adesso è terrificante? Non è più il 2011 di 15 milioni di celebrità, o il 2013 di Orso Bianco. Dai primi, spaventosi, meritatamente osannati episodi di Black Mirror sono passati quasi tre lustri. Il mondo è cambiato, i social sono cambiati, la tecnologia che domina il primo e somministra i secondi pure. In meglio, mi piacerebbe aggiungere, ma non sono bravo a mentire.
Se lo “specchio nero” che abbiamo tutto il santo giorno sotto il naso ci restituisce solo le notizie surreali che arrivano da Oltreoceano, se i social sono pieni di teorie ben al di là dell’assurdo, se l’IA più che migliorare le nostre vite le riempie di ansie e storture non richieste, se tutto sembra sempre più una Idiocracy fin troppo reale, cosa può aggiungere Black Mirror al discorso, oggi? Probabilmente nulla. Questo il suo creatore, Charlie Brooker, l’ha capito da tempo, e con le ultime stagioni di Black Mirror ha provato a dire e fare anche altro. A giocare con il formato, a raccontare storie con un happy ending, a riformulare idee, a proseguire discorsi già intavolati in passato. Fa un po’ tutto questo, la settima stagione di Black Mirror, approdata su Netflix qualche settimana fa. Arrivato alla fine del suo sesto e lunghissimo episodio, in ogni caso, mi sono detto che c’era speranza. Per Black Mirror, non per il mondo. Purtroppo.
Chiunque, là fuori, vi dirà che con il passaggio a Netflix, e il trasloco negli USA, Black Mirror ha perso mordente e venduto la sua anima. Che il suo meglio questa serie l’ha dato più di dieci anni fa, con cose come Bianco Natale. E probabilmente è vero. Di certo, dopo l’amatissimo San Junipero e la sperimentazione di Bandersnatch, un librogioco per la TV, i tre soli episodi della quinta stagione hanno rappresentato nel 2019 il punto più basso nella storia dello show. È andata un po’ meglio (peggio era del resto impossibile) due anni fa con la sesta, anche per via di scelte inconsuete, come la difficilmente-collocabile Demone 79.
Scivoliamo fino a questo aprile duemilaeventicinque, e la settima stagione sembra aver ridato fiato e gambe a Black Mirror, pur senza nulla di particolarmente originale e limitandosi solo a un unico accenno alla Black Mirror feroce dei primi tempi. Come? Grazie a un paio di episodi ben scritti, a uno ottimamente interpretato e a diversi rimandi e giochi veri e propri con lo spettatore. Che a Charlie Brooker i giochi piacciono non lo dimostrano d’altronde altri due episodi legati in questa stagione ai videogame, ma il suo curriculum. Prima di diventare un autore televisivo e fare il botto con miniserie come l’intrigante Dead Set, Brooker scriveva recensioni per riviste come PC Zone: annotate mentalmente questa cosa, ci torniamo tra un attimo.
Segue analisi dei singoli episodi di questa settima stagione di Black Mirror, ma senza spoiler, tranquilli.
L’accenno alla ferocia del Black Mirror britannico, quello di Channel 4, di cui parlavamo prima. La Common People del titolo sono due persone come tante, che conducono una vita qualunque, finché il Lucignolo di un’azienda dalle cure avveniristiche non offre una soluzione al dramma che investe improvvisamente la loro esistenza. C’è un po’ di tutto, in questo episodio, dal mercato del sé stessi in onda su OnlyFans alla pornografia social del fremdschämen, le cose imbarazzanti che fanno ridere finché toccano agli altri. C’è l’ironia sui livelli di abbonamento delle piattaforme online, che ti fanno pagare progressivamente sempre di più per continuare a godere della stessa esperienza iniziale. In una serie antologica destinata proprio a una di queste piattaforme: ironico, vero? Il senso è proprio questo. Chi è padrone di cosa, in fondo, quando tutto è un comodato per nulla gratuito? E a cosa si è disposti ad arrivare per il bene di chi si ama? Rashida Jones e Chris O’Dowd confezionano un riuscito cazzotto nello stomaco, che avrebbe trovato degnamente posto nelle primissime stagioni dello show.
Potrebbe sembrare una normale storia di colleghi insopportabili in ufficio, che poi imbocca la tangenziale del fantastico per spiegare perché sta accadendo quanto vediamo sullo schermo. Il tocco di classe di questo episodio, però, è che ne esistono due versioni differenti, e ne viene selezionata una a caso quando lo si guarda. Si tratta solo di un piccolo dettaglio divergente, legato a – diciamo così – un nome e del pollo, e non voglio rovinarvi la sorpresa. Ma visto che tutto l’episodio è incentrato sugli errori di percezione e su una sorta di Effetto Mandela continuo che interessa la protagonista (Siena Kelly), è una bella trovata.
Uhm, no. L’idea di fondo, il deep fake nelle mani dei produttori cinematografici, la possibilità di rigirare i classici del cinema con chiunque tu voglia al posto dei protagonisti originali, e una sorta di tensione amorosa alla San Junipero – San Junipero che, tra l’altro, viene citato ogni due per tre in tutta la stagione – poteva essere interessante. Ma troppi spiegoni hanno sovraccaricato in fretta il mio già limitato livello di sopportazione delle mangiatoie basse per il pubblico distratto. Peccato, c’era del potenziale.
Un tipo che lavora per una rivista di videogiochi negli anni 90, come Charlie Brooker. Non a caso, la rivista è proprio la suddetta PC Zone. Un videogioco dalle potenzialità incredibili, una specie di Super-Tamagotchi con dentro Populous e Creatures. L’LSD e una parata di macchine da gioco degli anni 90 e Duemila. Peter Capaldi che fa lo scoppiato e Will Poulter che riprende il suo personaggio di Bandersnatch, il game designer Colin Ritman. L’idea è semplice e già vista, ma sarà il tipo di ambientazione, sarà che a Capaldi voglio bene, sarà soprattutto che ha un mood da vecchio episodio di Ai confini dalla realtà, mi è piaciuto. Gradevole, senza strafare, tralasciando la traduzione in italiano buffa del titolo originale (Plaything).
Bellissimo. Non tanto per la storia del Facebook dei ricordi in cui farsi una gita e farsi venire il magone, ma per la prova di un sempre enorme ed estremamente umano Paul Giamatti. Uno dei motivi per cui questa stagione va vista, insieme a Gente Comune e, per ragioni diverse, all’episodio seguente.
Sì, è un sequel di un episodio della quarta stagione, USS Callister, con gli stessi interpreti (Jesse Plemons, Cristin Milioti, Jimmi Simpson…) e lo stesso regista, Toby Haynes. Dura la bellezza di novanta minuti perché Haynes e Brooker volevano sviluppare una serie TV sulla Callister, che poi però non si è fatta. L’idea è stata perciò zippata in un unico episodio sequel di durata extra, che porta avanti la storia di questo equipaggio alla Star Trek che esiste solo virtualmente, sui server di un gioco online.
Per come si sviluppa e conclude la storia, fa parte a pieno titolo del secondo corso di Black Mirror, ma probabilmente proprio per questo, con la sua natura da film di fantascienza di serie B degli anni 90, nel complesso diverte. Senza proiettare dubbi attuali, senza lasciarti con il magone. Perché Black Mirror, dicevamo, in questi anni ha cambiato pelle, in parte per variare, in parte perché gli è cambiato il mondo attorno. Di nuovo, non in meglio. E fintanto che Brooker si ricorda di aggiungere a ogni nuova tornata episodi come Gente Comune o Eulogy, il discorso mi va pure bene.
Non tutto può essere carico d’angoscia, disperazione e paure, mi sono detto sui titoli di coda di USS Callister: Infinity. Perché per quello, basta aprire un telegiornale o un sito di notizie a caso.