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The Monkey, la recensione del film di Osgood Perkins

Una commedia horror che abbraccia il caos del mondo e sceglie di riderci sopra.

Pubblicato il 11 marzo 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Se consideriamo la sua voce di narratore, a Stephen King non manca un certo gusto per l’ironia sardonica, che rende l’orrore ancora più straniante. Eppure La scimmia, contenuto nella raccolta Scheletri, di umorismo ne ha ben poco, e anzi sceglie toni piuttosto gravosi per raccontare la storia di una maledizione familiare. Nel suo adattamento, Osgood Perkins fa invece l’opposto: The Monkey stravolge lo sguardo sulla vicenda, optando per un registro paradossale che si avvicina alla commedia horror. Caso raro, fra le trasposizioni di King.

Del racconto originale resta più che altro l’ossatura, ma le articolazioni sono ben diverse; al centro, comunque, troviamo sempre quel retaggio paterno che ritorna spesso nelle opere del Re. I gemelli Hal e Bill Shelborn (Christian Convery) stanno crescendo senza il padre, che ha abbandonato i figli e la moglie Lois (Tatiana Maslany) dopo aver portato a casa una scimmia meccanica da uno dei suoi viaggi. È proprio Bill, il fratello più piccolo e timido, a rinvenire la scimmia tra le chincaglierie del genitore: sguardo vitreo e sorriso mordace, il pupazzo è armato di tamburo, e basta girare la chiave dietro la schiena per farglielo suonare. Purtroppo, però, qualcuno muore orribilmente ogni volta che il meccanismo viene attivato, come i due gemelli capiscono presto. Che fare? La scimmia pare indistruttibile, e torna a perseguitare Bill anche 25 anni più tardi, quando lui e il fratello hanno interrotto i rapporti.

Si parlava di retaggio maschile, e infatti The Monkey percorre una linea ereditaria che dal padre di Hal e Bill giunge fino a Petey (Colin O’Brien), figlio di quest’ultimo. Per King è un riferimento autobiografico: anche suo padre se ne andò di casa senza mai fare ritorno, lasciandosi alle spalle non pochi problemi. La scimmia, insomma, è l’espressione concreta di quel bagaglio genitoriale, con tutte le conseguenze del caso. Perkins sceglie però di valorizzare l’assurdo, il paradosso, attingendo lui stesso alle sue esperienze personali. Entrambi i suoi genitori sono morti in circostanze tragiche: il padre Anthony Perkins per complicazioni legate all’AIDS, nel 1992; sua madre Barry Berenson per il dirottamento del volo dell’American Airlines che colpì la Torre Nord del World Trade Center, l’11 settembre 2001. L’approccio caustico di The Monkey è quindi la sua risposta all’insensatezza della vita, un modo per accettare il caos del mondo e riderci sopra.

In effetti, i numerosi decessi che vediamo nel film hanno il piglio grottesco di Final Destination, e la scimmia stessa diviene una personificazione della morte: non dolente e tenebrosa, ma beffarda come una fatalità. Per dare forma a questa concezione, Perkins punta sul parossismo e flirta con lo splatterstick, uno dei sottogeneri dell’horror più difficili da gestire. Nel complesso, però, gli riesce bene: ogni “incidente” è un grand guignol di viscere e sangue che lascia interdetti i testimoni, soprattutto Bill, fino a desensibilizzarli. The Monkey gioca moltissimo su questo umorismo laconico e straniante, dove il montaggio di Greg Ng e Graham Fortin svolge un ruolo cruciale per l’effetto comico; la gag ricorrente dello stacco sui funerali è emblematica, in tal senso. Pur essendo un regista tendenzialmente serioso, Perkins trova qui un giusto equilibrio fra risata e orrore, più di quanto non abbia fatto nel recente Longlegs. Ci sono anche meno virtuosismi autocompiaciuti, sostituiti da una messa in scena rigorosa che si adegua al contesto e alla sua trama. Il limite se mai è nella scrittura, come gli è già accaduto in passato. Se il copione fila liscio almeno fino a metà film, in seguito Perkins – per imbastire una sorta di intreccio – si complica inutilmente la vita con degli antagonisti umani: così facendo, si caccia in passaggi narrativi troppo forzati e illogici, anche per una storia come questa. Non era necessario.

Ad ogni modo, la debolezza del terzo atto non pregiudica l’intrattenimento, né l’ironia sprezzante di un horror che resta fedele a sé stesso fino alla fine. Con il suo umorismo macabro, The Monkey esalta il potere liberatorio della risata, forse l’unico che abbiamo contro i paradossi dell’esistenza. Così facendo, Perkins coglie un lato di Stephen King che raramente vediamo rappresentato al cinema, e dichiara il suo amore per il vasto universo dello scrittore: tra nomi noti e luoghi familiari, gli Easter egg non mancano di certo. Fateci attenzione, soprattutto se siete fan delle sue opere.