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The Last Showgirl, la recensione del film di Gia Coppola

La rinascita artistica di Pamela Anderson in un film che riflette su maternità e invecchiamento nel mondo dello spettacolo.

Pubblicato il 21 marzo 2025 di Lorenzo Pedrazzi

I viali del tramonto esercitano sempre un certo fascino, soprattutto quando i rimandi autobiografici sono palesi. È lo scotto da pagare per rilanciarsi: apriti alla macchina da presa, metti a nudo la tua vulnerabilità, e noi ti offriamo una grande occasione sul finire della carriera. Mickey Rourke e Michael Keaton sono dovuti passare dalle esperienze di The Wrestler e Birdman per tornare in pista, mentre Demi Moore si è sottoposta al martirio cinematografico di The Substance per ottenere un minimo di riconoscimento. Viene naturale accostare quest’ultimo a The Last Showgirl (l’attrice in declino che si rivede nel personaggio, le ingerenze sessiste sulla vita di una donna…), ma le differenze vanno ben oltre il genere: se Moore ha avuto una fiorente carriera sul grande schermo, Pamela Anderson non è mai stata presa sul serio come interprete, e non ha mai avuto l’opportunità di lavorare in ruoli drammatici. Dal punto di vista di produttori e spettatori, è sempre stata più un corpo che una persona.

Anche Shelly Gardner, protagonista del film di Gia Coppola, è costretta a misurarsi con la fine delle sue ambizioni professionali. Ballerina del Razzle Dazzle, storico varietà di Las Vegas, Shelly si è coperta di piume e paillettes per almeno tre decenni, esibendosi sul palco con dedizione costante. Ora però ha 57 anni, e lo spettacolo sta per chiudere. Mentre le sue colleghe più giovani (Brenda Song e Kiernan Shipka) fanno provini in giro per la città, Shelly è senza prospettive: il mondo dello show business, dopo aver tratto vantaggio dalla sua avvenenza, non le ha lasciato nemmeno uno straccio di previdenza sociale. Anche la sua amica Annette (Jamie Lee Curtis) si è ritrovata nella stessa situazione, e ora serve cocktail in abiti succinti tra le slot machine di un casinò. Intanto, Shelly cerca di riallacciare i rapporti con sua figlia Hannah (Billie Lourd), che vive fin dall’adolescenza con alcuni amici di famiglia, e studia fotografia in Arizona.

Di passaggio a Las Vegas, Hannah la costringe a uscire dalle sue fantasie. Shelly è sempre stata convinta che il Razzle Dazzle fosse un varietà di classe, anche in virtù delle sue radici parigine, ma Hannah ci vede solo un’esibizione di ragazze in topless, e la accusa di averla abbandonata per uno spettacolo tanto pacchiano. Come si evince anche dal successivo confronto tra Shelly e il produttore dello show (Eddie, un garbato e malinconico Dave Bautista), il problema è sempre lo stesso: a carico di una donna ci sono delle responsabilità sproporzionate, che non le permettono di conciliare le aspirazioni individuali con gli impegni familiari. Ciò che ne deriva è una sensazione di isolamento, ma anche di punizione, forse persino di stigma sociale; come se Shelly dovesse pagare per aver scelto di vivere in libertà le sue passioni.

La sceneggiatrice Kate Gersten – già autrice di un testo drammaturgico sull’argomento – ha tratto ispirazione dalla chiusura di un vero spettacolo di Las Vegas, il Jubilee!, cercando di radicare la storia in un contesto plausibile: i personaggi, insomma, affrontano le conseguenze delle loro azioni nel mondo reale. Com’è facile immaginare, siamo dalle parti di un cinema indie che si compiace del suo registro stilistico. C’è tutto il campionario delle produzioni indipendenti americane: camere a mano d’impronta documentaristica; sfocature volontarie; una ruvida fotografia in 16mm (di Autumn Durald Arkapaw); e inquadrature che si soffermano a lungo sui volti. Soluzioni forse scontate per un film del genere, come l’evoluzione stessa della trama. Ciononostante, Gia Coppola ha il merito di mettersi completamente a disposizione di Pamela Anderson, restituendole quella dignità artistica che le è sempre stata negata. La sua interpretazione ha qualcosa di genuino, poiché trae forza dal crollo delle illusioni e dall’esigenza di riesaminare sé stessa: un contrasto che l’attrice sa rendere benissimo sullo schermo, soprattutto nella differenza tra la protagonista in abiti di scena e quella che cammina per le strade di Las Vegas.

È facile pensare alle eroine di Sean Baker, immerse nei non-luoghi dell’impero americano, ma anche (con le ovvie differenze) al divismo messo in crisi dall’invecchiamento ne La sera della prima di John Cassavetes. Certo, The Last Showgirl ha un passo fin troppo convenzionale per sorprendere davvero, ma la rinascita della sua star non lascia indifferenti. Era il ruolo drammatico che aspettava da trent’anni, e per ottenerlo ha dovuto “solo” rimettere in discussione tutta sé stessa.

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