Cinema

Quando Sean Baker girò un lungometraggio col cellulare

Fresco vincitore di quattro Oscar per Anora, Sean Baker è un vero cineasta indipendente che sa sfruttare la scarsità di mezzi a proprio vantaggio.

Pubblicato il 07 marzo 2025 di Lorenzo Pedrazzi

«Lunga vita ai film indipendenti!» ha esclamato Sean Baker quando Anora ha vinto l’Oscar come Miglior Film, al culmine di una serata trionfale che l’ha visto ricevere ben cinque statuette: le altre sono quelle per la miglior sceneggiatura originale, il montaggio, la regia e l’attrice protagonista (Mickey Madison). D’altra parte, Baker il cinema indie ce l’ha nel sangue, anche come modalità di lavoro. Tra budget risicati e attori non professionisti, il regista del New Jersey si muove quasi sempre all’ombra del Sogno, in un’America dimenticata e periferica. Non è un caso che i suoi film ruotino spesso attorno a sex worker di vario tipo: sono le pecore nere di una società ipocrita, dove il sesso è ormai l’unico vero ascensore sociale.

Anche Tangerine, il suo quinto lungometraggio, ha come protagonista una lavoratrice del sesso. Uscito nel 2015 con la produzione dei Duplass Brothers, il film segue le vicende di Sin-Dee Rella (Kitana Kiki Rodriguez), prostituta trans di Los Angeles che gira per la città in cerca del suo compagno e protettore, reo di averla tradita con un’altra donna. Per pedinare Sin-Dee e la sua amica Alexandra in questa odissea metropolitana, Baker usa tre iPhone 5S, che gli permettono di risparmiare sulle macchine da presa e pagare sia le location sia le comparse. È il 2014, e i cineasti si stanno rendendo conto che gli smartphone possono rivelarsi degli ottimi strumenti di ripresa: lo stesso Baker se n’è accorto guardando alcuni esperimenti con l’iPhone su Vimeo.

Ovviamente gli iPhone da soli non bastano. Baker e il co-direttore della fotografia Radium Cheung usano anche un adattatore anamorfico di Moondog Labs per il formato panoramico (essendo ancora un prototipo, riescono a ottenerne tre gratuitamente); e uno stabilizzatore della Tiffen per evitare che le inquadrature siano mosse. Quest’ultimo, in sostanza, è una steadicam per smartphone, come spiega lui stesso in un’intervista dell’epoca.

Inoltre, l’app FiLMIC Pro permette loro di controllare la messa a fuoco, l’apertura e la temperatura di colore, nonché di catturare delle clip a una frequenza maggiore. Per il sonoro, però, il discorso è ben diverso: Baker registra l’audio con attrezzatura professionale, e poi sincronizza il tutto in post-produzione. I soli iPhone, infatti, gli avrebbero impedito di ottenere un sonoro altrettanto pulito e comprensibile.

Il risultato è di alto livello: si avverte il lavoro sulla fotografia, resa acida sotto il sole di Los Angeles, ma l’utilizzo degli smartphone trasmette soprattutto l’idea di un cinema da strada, libero di vagare tra la gente, lontanissimo dalla rigidità degli studios. In fondo, l’equipaggiamento leggero è proprio ciò che ha rivoluzionato la Settima Arte negli anni Sessanta, con la Nouvelle Vague e la New Hollywood; meno ingombranti sono le attrezzature, maggiore è la libertà dei cineasti, anche quelli che lavorano con risorse quasi inesistenti. Beninteso, Tangerine non è il primo lungometraggio a usare gli iPhone (questo record appartiene al thriller Uneasy Lies the Mind di Ricky Fosheim), ma indubbiamente è quello che ne dimostra le potenzialità. Il suo esempio è stato poi seguito da uno sperimentatore come Steven Soderbergh, che ha girato con l’iPhone sia Unsane sia High Flying Bird.

Insomma, Tangerine è la prova dell’adattabilità di Sean Baker, regista per cui la carenza di mezzi non è mai stato un limite, bensì un’opportunità per trovare soluzioni nuove. Speriamo che, dopo gli Oscar, resti fedele alla sua natura.