Cinema Oscar & Premi

Oscar, vincitori e sconfitti di un’edizione non scontata

Pubblicato il 03 marzo 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Alla fine ha trionfato Anora, emblema di quel cinema indie che ogni tanto si fa strada sgomitando fino agli Oscar. Certo, stiamo parlando di un film che partiva in vantaggio grazie alla Palma d’Oro a Cannes, senza contare il notevole successo commerciale: col senno di poi, è facile considerarlo un predestinato. La verità, però, è che questa edizione degli Academy Awards non aveva esiti scontati. The Brutalist, Conclave, Emilia Pérez e lo stesso Anora parevano abbastanza in equilibrio, prima che il musical di Jacques Audiard scivolasse nelle retrovie a causa di polemiche sicuramente comprensibili, ma indipendenti dal suo valore artistico. Nonostante le 13 candidature (record per un film non in lingua inglese), le statuette sono state solo due: a Zoe Saldaña come Miglior Attrice Non Protagonista – curioso, dato che la vera protagonista della storia è proprio lei – e alla canzone El mal. Briciole, rispetto alle aspettative di qualche tempo fa.

Persino nella categoria del Miglior Film Internazionale, dove spesso emerge la vera qualità, l’Academy ha voluto giocare sul sicuro: Io sono ancora qui di Walter Salles è un’opera validissima, di grande impegno civile, ma in linea con un cinema politico che abbiamo già visto. Più coraggiosa la scelta di premiare No Other Land come Miglior Lungometraggio Documentario, soprattutto di questi tempi. Realizzato da un collettivo israelo-palestinese (Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal), il film racconta la lotta dello stesso Basel Adra e di altri attivisti palestinesi per contrastare la distruzione del loro villaggio natale, Masafer Yatta in Cisgiordania, da parte delle forze di difesa israeliane. Mentre Donald Trump parla di deportare milioni di civili per trasformare Gaza in una terrificante “Riviera del Medio-Oriente”, l’Oscar a No Other Land ha un valore più che simbolico.

Naturalmente, la vittoria di Anora come Miglior Film, Regia e Sceneggiatura Originale va a scapito di The Brutalist, che già aveva perso un meritato Leone d’Oro a Venezia in favore di Almodóvar. Il punto, però, è che questo tipo di cinema “monumentale”, radicato nelle ombre del Novecento, è stato spesso ignorato dall’Academy nel nuovo millennio: basti pensare ai casi di There Will Be Blood e The Master (quest’ultimo nemmeno candidato), mentre Oppenheimer ha rappresentato una felice eccezione. Meritatissimo, in compenso, il premio a Adrien Brody come Miglior Attore Protagonista (il secondo dopo quello per Il pianista), in barba alle assurde polemiche sull’uso dell’IA in post-produzione.

Se parliamo di interpretazioni, comunque, la (relativa) sorpresa è stata forse Mikey Madison come Miglior Attrice Protagonista, proprio quando Fernanda Torres sembrava avere la strada spianata con Io sono ancora qui. È improbabile che l’attrice brasiliana sia stata penalizzata da una sua vecchia blackface, riemersa più di un mese fa grazie ai soliti segugi della rete: a intuito, si direbbe che la performance di Madison abbia stregato l’Academy in virtù della sua freschezza, nonché del grande impegno fisico richiesto dal suo ruolo. In fondo, questo ritratto non stereotipato di una lavoratrice del sesso è dovuto tanto alla scrittura di Sean Baker quanto all’ottima prova dell’attrice californiana, una vera forza della natura nell’epopea di Anora. D’altra parte, lo stesso Baker si vede consacrato anche sul palcoscenico più mainstream in assoluto, e speriamo che i suoi film precedenti ne traggano pari vantaggio. È un regista dal talento sopraffino, cantore di un’America che vive lontana dal Sogno, e osserva la nuova socialità dei non-luoghi (senza giudicarla) con un’umorismo che non è mai disilluso: ereditando questa poetica, Anora rielabora i classici hollywoodiani in un’efficace sovversione della commedia romantica, i cui sviluppi ci riportano bruscamente dalla fantasia alla realtà.

È quindi un cinema indipendente che, nell’evocare modelli ben riconoscibili, riesce ad accattivarsi anche il grande pubblico (requisito fondamentale per vincere agli Oscar, come sappiamo). Ma un trionfo ancora più significativo – in quanto produzione slegata dalle major hollywoodiane – è quello di Flow come Miglior Lungometraggio Animato: pur essendo costato solo 3.5 milioni di euro e realizzato con Blender (un noto software open source), il bellissimo film del lettone Gints Zilbalodis ha sbaragliato i colossi Pixar e Dreamworks, dimostrando come le idee contino sempre più del budget. Si tratta peraltro di un’opera senza dialoghi, dove animali non antropomorfi si muovono in un mondo completamente privo di esseri umani. Insomma, è il cinema che varca i limiti del conoscibile, come solo la vera arte può fare.