Il cinema di genere si conferma l’ultimo spazio realmente politico di Hollywood, il solo in cui esista ancora un certo grado di anarchia. Ovviamente i film di Bong Joon-ho sono sempre stati politici, ma è significativo che il regista non scenda a compromessi nemmeno con gli studios americani: lo abbiamo già visto in Snowpiercer e Okja, ma Mickey 17 ne è la prova definitiva. Forte degli Oscar per Parasite, Bong sfrutta il suo potere contrattuale per trasporre il quasi omonimo romanzo di Edward Ashton (Mickey7, edito in Italia da Fanucci) con piglio molto personale, riconducendo alla sua poetica la brillante premessa del libro.
L’impianto di base non cambia, anche se l’ambientazione temporale è ben più vicina al nostro presente. Nel 2054, la Terra è sempre più inospitale, e le missioni coloniali nello spazio non faticano a trovare dei volontari. Mickey Barnes (Robert Pattinson) ha contratto un debito con la malavita insieme all’amico d’infanzia Timo (Steven Yeun), quindi decide di scappare dove il suo creditore non potrà mai trovarlo: su un altro pianeta. Pur di unirsi alla prossima missione, Mickey si offre volontario come “sacrificabile”, il ruolo meno ambito di tutti, senza rendersi conto delle conseguenze. I compiti più rischiosi sono infatti affidati a lui, e ogni volta che muore – eventualità molto frequente – la sua mente viene caricata su un corpo nuovo, clone dell’originale. «Sono un tipo merdoso di immortale» dice il protagonista nel romanzo, sintetizzando bene la sua nuova vita. Mickey si espone a radiazioni letali, fa da cavia per lo staff medico, testa virus e vaccini, spesso con effetti spaventosi. Poco importa: ai capi della missione, il politico fallito Kenneth Marshall (Mark Ruffalo) e sua moglie Ylfa (Toni Collette), interessa solo raggiungere il pianeta Niflheim e fondare una nuova colonia, esercitando quell’autorità che non avevano sulla Terra.
Per fortuna, al fianco di Mickey c’è Nasha Barridge (Naomi Ackie), agente di sicurezza che instaura una relazione con lui durante il viaggio, e gli resta vicino anche nei momenti peggiori. Niflheim, comunque, si rivela una palla di ghiaccio ben poco ospitale, con una misteriosa specie animale – gli “striscianti” – che vive nel sottosuolo. Mentre i coloni se la cavano a stento con la loro razione giornaliera di calorie, Marshall e sua moglie vivono nel lusso, riparandosi dietro la religione per legittimare il loro potere. La quotidianità di Mickey – giunto nel frattempo alla diciassettesima incarnazione – viene stravolta quando, creduto morto durante una missione all’esterno, si salva proprio grazie agli striscianti, e torna alla base sano e salvo. Il suo diciottesimo clone è stato però già “stampato”, dando luogo a una situazione rischiosa: i “multipli” sono infatti proibiti. Mickey 17 e Mickey 18 devono quindi imparare a convivere in segreto, aiutati da Nasha.
Come aveva già fatto in Snowpiercer, Bong Joon-ho prende l’opera originale e ne accentua gli elementi politici, alimentando quel rapporto dialettico tra vittime e carnefici che è tipico del suo cinema. Per quanto prodigiosi, gli sviluppi tecnologici non liberano l’umanità dalle sue catene, ma giovano soltanto al potere: Mickey diviene così l’emblema del lavoratore a cui non basta più concedere il suo tempo al datore di lavoro, peraltro in cambio della mera sopravvivenza; deve addirittura sacrificare la vita, un numero potenzialmente illimitato di volte. Il suo corpo viene reificato di continuo, e lo stesso accade alla sua identità, annullata da un numero crescente al posto del cognome. Un reietto in un mondo di miserabili, dove l’unica vera differenza è tra oppressi e oppressori.
Ciononostante, se già il romanzo di Ashton non manca di ironia, Bong porta il parossismo all’estremo, consapevole di mettere in scena un teatro dell’assurdo. In effetti, lo sguardo del regista sudcoreano diventa ancora più grottesco quando si posa sugli Stati Uniti d’America: le dinamiche autoritarie del paese, come pure il rapporto tra politica e società, ai suoi occhi sono troppo ridicoli e non vanno presi sul serio. È anche per questo che Mickey 17 evita la trappola in cui sono caduti molti altri prodotti dell’industria culturale. La critica dei potenti, in forma drammatica o satirica, è molto comune nel cinema e nella televisione contemporanei, al punto che “Eat the Rich” è diventato quasi un sottogenere. Eppure, film come The Menu o Triangle of Sadness non disinnescano il fascino che i ricchi esercitano su moltissime persone, e che nutre la popolarità di individui come Elon Musk o Donald Trump: al contrario, li calano in situazioni desiderabili, limitandosi a punirli per i loro privilegi. Bong invece, proprio in virtù del grottesco, restituisce dei potenti un ritratto laido, respingente, e li mette in un contesto che di appetibile non ha nulla; anzi, è un monumento alla loro infinita idiozia. La sua è ben più che una satira, poiché si spinge fino a immaginare lo smantellamento del sistema dominante, stupido e opportunista, in favore di una società più equa. Al contrario degli altri, Mickey 17 non è un film distruttivo, bensì costruttivo.
Sullo stesso piano va letto il superamento dell’antropocentrismo e del colonialismo, temi centrali nel rapporto tra gli umani e gli striscianti. Il Mickey del film è certamente più ingenuo rispetto a quello del libro, ma ciò che lo distingue dal suo clone – caratterizzato come decisionista e bellicoso – è l’adattabilità: ovvero, il requisito principale per sopravvivere. Solo lui, insomma, può coprire il divario tra le due specie, laddove gli umani sono i veri alieni, in quanto esterni e invasori. Pattinson, in tal senso, è eccezionale: lavorando sulla postura, sulla voce e sulla mimica facciale, rende facilmente distinguibili i due cloni, anche quando non c’è alcun segno di riconoscimento. Che si tratti del candore di Mickey 17 o dell’aggressività di Mickey 18, la sua interpretazione coglie ogni minima sfumatura, e regge da sola l’intero film (anche se i comprimari sono di altissimo livello).
L’unica scelta discutibile è quella di ambientare la storia nel 2054, troppo presto per i viaggi interstellari, il mind uploading e la clonazione istantanea. Poco male, però: a Bong non interessa ragionare sulla verosimiglianza, ma usare la fantascienza come strumento sovversivo, specchio dei nostri affanni e dei nostri sogni per il futuro.