Mentre il cinema cerca nuove prospettive da cui inquadrare gli orrori del nazifascismo, la banalità del male offre sempre un punto di partenza interessante, per quanto già battuto. Le assaggiatrici di Silvio Soldini, dall’omonimo romanzo di Rosella Postorino, si focalizza su una vicenda molto specifica, rimasta per lungo tempo all’ombra del Terzo Reich: quella di un gruppo di donne costrette ad assaggiare le pietanze di Adolf Hitler, per verificare che non fossero avvelenate.
Film e romanzo, però, traggono solo ispirazione dall’esperienza di Margot Wölk, unica sopravvissuta del gruppo, che ha reso pubblica la sua storia nel 2012; la protagonista è quindi frutto della fantasia dell’autrice, come pure l’intreccio e i suoi sviluppi. Nel novembre del 1943, Rosa Sauer (Elisa Schlott) lascia Berlino per sfuggire ai bombardamenti alleati, e si rifugia dai suoceri a Gross-Partsch, nella Prussia Orientale (l’attuale Polonia). Suo marito Gregor è dispiegato sul fronte russo, ma Rosa non riceve sue notizie da tempo. Un giorno, alcuni membri delle SS la prelevano da casa senza spiegazioni, e la portano in una caserma insieme ad altre donne: dovranno fare da assaggiatrici per il Führer, nascosto nella vicina Tana del Lupo; un’ora dopo il termine del pasto, se non ci sono conseguenze nocive, le pietanze vengono portate al quartier generale. Alle donne non viene lasciata alcuna scelta: se non mangiano, vengono minacciate con le armi. D’altra parte, cibo e denaro scarseggiano, ma quell’occupazione permette loro di ricevere entrambi.
Rosa e le altre si ritrovano così in una situazione paradossale, dove la sopravvivenza implica un rischio altissimo. Intanto, Gregor viene dato per disperso, e la solitudine spinge Rosa fra le braccia del comandante Albert Ziegler (Max Riemelt), con cui si incontra di notte nel fienile dei suoceri. È qui che Le assaggiatrici fa le sue scelte più coraggiose, rievocando proprio la banalità del male: dietro uno dei più grandi orrori della Storia umana – ci ricorda il film – troviamo persone comuni, non mostri delle fiabe. Ovviamente lo sguardo asciutto e rigoroso di Soldini ci spinge a osservare il tutto dall’alto, con consapevolezza e senso critico, valorizzando i dubbi di Rosa più che il conflitto interiore di Albert. L’adattamento si inserisce così in una tendenza più ampia del cinema contemporaneo, che racconta la Shoah e la Seconda Guerra Mondiale senza mostrarle apertamente; piuttosto, ne evoca la presenza fuori campo, optando per angolazioni finora inesplorate. Pensiamo al punto di vista individuale de Il figlio di Saul, o a quello esterno de La zona di interesse. Oppure, più di recente, alla distanza generazionale di A Real Pain: più che narrare l’Olocausto per cronaca diretta, insomma, se ne descrivono gli echi.
Non a caso, anche la persecuzione degli ebrei è un riferimento collaterale, e trasforma la vicenda in una sineddoche dello sterminio, quando forse un epilogo più sfumato avrebbe giovato di più all’evoluzione del terzo atto. Resta comunque un film ben confezionato, privo di acuti ma piuttosto solido, anche grazie allo schietto naturalismo di Soldini. Ne deriva una celebrazione (sobria e mai didascalica) della solidarietà femminile come atto di resistenza, capace di germogliare persino nelle circostanze più drammatiche: non importa che il fronte sia vicino o lontano, la guerra è oppressiva anche per le donne rimaste a casa. Soldini – co-sceneggiatore insieme a Doriana Leondeff, Lucio Ricca, Cristina Comencini, Giulia Calenda e Ilaria Macchia – mette quindi alla prova la sua sensibilità in un contesto storico e internazionale, decisamente nuovo per lui. Nel complesso, l’operazione è riuscita.
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